Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le verità nascoste della commedia
Chi è davvero Dries Mertens, che ci ha fatto innamorare? E’ un furbacchione che a trentacinque anni vorrebbe applicare a se stesso il metodo Mbappé, guadagnando oltre i propri limiti, come tutti i calciatori che vivono, o vorrebbero vivere, nel jet set degli sceicchi e degli avvocati d’affari? Oppure Ciro è la vittima di un tormentone delaurentisiano, dove opacità, mezze bugie, rivelazioni stampa sgocciolate a pezzi e bocconi creano una nebbia fitta? Per la verità si dovrebbe dire che l’opacità tormentata è il nostro modo di produzione della favola calcistica e forse di quella politica, perché chi ha capito mai niente del groviglio di bugie sui mancati arrivi di Maradona dall’Argentina, orsono trent’anni fa?
Ma con L’Impresario di Natale il metodo è stato raffinato, portato a cultura aziendale, è entrato nel professionismo, toccando col caso Higuain il delitto perfetto. L’opacità fa parte del velato disprezzo (velato?) che l’impresario nutre per quelli che pagano il suo show. Eppure anche i tifosi cui sanguina il cuore dovrebbero riuscire a guardare le cose da più lati. Sono veri tutti i personaggi: l’Impresario e il furbacchione, l’imprenditore che deve legittimamente ridurre il monte salari e il campione che chiama il figlio Ciro ma dà la precedenza al conto in banca, perché a 35 anni la carriera sta per finire. Mertens disse tanti anni fa indicando in un bar il ritratto di Maradona: «La vedi quella foto? Il mio obiettivo è essere al suo posto fra dieci anni». Era troppo, ma ha fatto tanta strada nel cuore dei napoletani: un atleta polivalente, capace di adeguarsi ad ogni ruolo, veloce, mentalmente forte, creatore di parabole impossibili, dannazione dei portieri, un po’ sbruffone nei gesti, come la pipì alla bandierina del calcio d’angolo che i romanisti non gli hanno ancora perdonato. Ma qui passiamo all’altro lato: la prestazione che noi vediamo è la faccia pubblica del giocatore, mentre, come per la luna, c’è la faccia in ombra: il desiderio di guadagnare, i sentimenti tempestosi, il desiderio di spassarsela ai baretti, l’amore per i cagnolini: tutte cose che i tifosi confondono con il loro amore, appiattendo il personaggio e prendendone le parti a prescindere. E chi tifoso è, li capisce: su twitter, dopo una sconfitta in casa con la Juve, alle sette di mattina pubblicò la foto del golfo con quel filo di foschia che c’è a volte la mattina. Come per dire: questo siamo noi e fottetevi. Si può non amare un uomo simile? Sì, ma di amore non accecato. Perché la strada del ridimensionamento dei costi ha il sapore metallico della ragioneria ma le ragioni della realtà, anche se praticata con modalità bazariote.
Il Napoli è già fallito una volta, dobbiamo stare lontani dai debiti come un alcolista riabilitato dal boccale di birra. E se questo significa perdere grandi calciatori che si sono amati (tremo al nome del possibile prossimo), quello è il prezzo del nostro essere pesciolini in un mare di squali. Poi l’impresario ci guadagna certo, ma è inutile farneticare di azionariato popolare, come succede nei social: possibile in una città ricca e amante dell’avventura. Non è il nostro ritratto. Bisogna sperare in una buona vendita del club. Avremmo solo voluto che finisse meglio, con più chiarezza. C’è chi sputa veleno sul «pappone», è il momento del dolore e della presa di posizione. Limitiamoci a dire: «T’avimmo voluto bene, guagliò». E tratta bene Juliette