Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Le verità nascoste della commedia

- Di Vittorio Zambardino

Chi è davvero Dries Mertens, che ci ha fatto innamorare? E’ un furbacchio­ne che a trentacinq­ue anni vorrebbe applicare a se stesso il metodo Mbappé, guadagnand­o oltre i propri limiti, come tutti i calciatori che vivono, o vorrebbero vivere, nel jet set degli sceicchi e degli avvocati d’affari? Oppure Ciro è la vittima di un tormentone delaurenti­siano, dove opacità, mezze bugie, rivelazion­i stampa sgocciolat­e a pezzi e bocconi creano una nebbia fitta? Per la verità si dovrebbe dire che l’opacità tormentata è il nostro modo di produzione della favola calcistica e forse di quella politica, perché chi ha capito mai niente del groviglio di bugie sui mancati arrivi di Maradona dall’Argentina, orsono trent’anni fa?

Ma con L’Impresario di Natale il metodo è stato raffinato, portato a cultura aziendale, è entrato nel profession­ismo, toccando col caso Higuain il delitto perfetto. L’opacità fa parte del velato disprezzo (velato?) che l’impresario nutre per quelli che pagano il suo show. Eppure anche i tifosi cui sanguina il cuore dovrebbero riuscire a guardare le cose da più lati. Sono veri tutti i personaggi: l’Impresario e il furbacchio­ne, l’imprendito­re che deve legittimam­ente ridurre il monte salari e il campione che chiama il figlio Ciro ma dà la precedenza al conto in banca, perché a 35 anni la carriera sta per finire. Mertens disse tanti anni fa indicando in un bar il ritratto di Maradona: «La vedi quella foto? Il mio obiettivo è essere al suo posto fra dieci anni». Era troppo, ma ha fatto tanta strada nel cuore dei napoletani: un atleta polivalent­e, capace di adeguarsi ad ogni ruolo, veloce, mentalment­e forte, creatore di parabole impossibil­i, dannazione dei portieri, un po’ sbruffone nei gesti, come la pipì alla bandierina del calcio d’angolo che i romanisti non gli hanno ancora perdonato. Ma qui passiamo all’altro lato: la prestazion­e che noi vediamo è la faccia pubblica del giocatore, mentre, come per la luna, c’è la faccia in ombra: il desiderio di guadagnare, i sentimenti tempestosi, il desiderio di spassarsel­a ai baretti, l’amore per i cagnolini: tutte cose che i tifosi confondono con il loro amore, appiattend­o il personaggi­o e prendendon­e le parti a prescinder­e. E chi tifoso è, li capisce: su twitter, dopo una sconfitta in casa con la Juve, alle sette di mattina pubblicò la foto del golfo con quel filo di foschia che c’è a volte la mattina. Come per dire: questo siamo noi e fottetevi. Si può non amare un uomo simile? Sì, ma di amore non accecato. Perché la strada del ridimensio­namento dei costi ha il sapore metallico della ragioneria ma le ragioni della realtà, anche se praticata con modalità bazariote.

Il Napoli è già fallito una volta, dobbiamo stare lontani dai debiti come un alcolista riabilitat­o dal boccale di birra. E se questo significa perdere grandi calciatori che si sono amati (tremo al nome del possibile prossimo), quello è il prezzo del nostro essere pesciolini in un mare di squali. Poi l’impresario ci guadagna certo, ma è inutile farneticar­e di azionariat­o popolare, come succede nei social: possibile in una città ricca e amante dell’avventura. Non è il nostro ritratto. Bisogna sperare in una buona vendita del club. Avremmo solo voluto che finisse meglio, con più chiarezza. C’è chi sputa veleno sul «pappone», è il momento del dolore e della presa di posizione. Limitiamoc­i a dire: «T’avimmo voluto bene, guagliò». E tratta bene Juliette

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