Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Regionalismo
per cui la crescita delle imprese è solitamente facilitata da investimenti «nei settori e nelle aree geografiche che sono all’avanguardia e già più integrate nell’economia mondiale». La soluzione, concludeva, sta dunque nell’ «investire di più in istruzione e far funzionare meglio la Pubblica amministrazione nelle aree disagiate».
Questo vuol dire sacrificare il Sud? Eppure, Giannola ha per anni tradotto così: Tabellini vuole frenare Napoli per aiutare Milano. Amen, e che la complessità vada in pace. Come se la soluzione giusta dovesse semmai essere il contrario. E cioè fermare Milano per aiutare Napoli. Ora io non credo che la Svimez intenda davvero impugnare questa bandiera. Che a me, tra l’altro, sembra molto neopopulista e per nulla socialdemocratica o riformista. Eppure, il mondo in cui in molti, nel Sud, si stanno preparando a ostacolare il cosiddetto regionalismo differenziato — anche nella versione ultima, più limitata — legittima il sospetto. Ancora si sostiene che sarebbe incostituzionale ciò che è stato invece costituzionalizzato non solo dal parlamento, ma anche da un referendum confermativo della riforma del Titolo V.
Il problema, semmai, è che per ora è incostituzionale non fare ciò che la Costituzione detta. Così come insensato sarebbe congelare tutto così com’è, perché così non funziona. E da opportunisti, sul tema, sarebbe tollerare il doppiopesismo dei partiti nazionali. Ad esempio, del Pd che continua a dire una cosa al Nord (con Bonaccini e Giani) e un’altra al Sud (con De Luca). O di due ministre come Gelmini e Carfagna, entrambe di Forza Italia e addirittura della stessa area liberal, che si occupano una prevalentemente del Nord (sono del Nord le regioni che chiedono più autonomia) e l’altra del Sud; e che si parlano come in una commedia di Ionesco, ognuna seguendo il filo dei propri pensieri, senza mai venire al nocciolo della questione. Che, per tutti, è questa: fermiamo Napoli, fermiamo Milano o diamo una spinta all’Italia intera?
Non era crollata, allora, solo la prima Repubblica, era finito un ciclo molto più lungo. Si era chiuso il primo tempo del Risorgimento italiano e la rotta di collisione tra Nord e Sud — con esigenze, aspettative e bisogni diversi, se non divergenti — non era solo un capriccio dei leghisti o dei settentrionali, ma la maturazione di processi storici, politici ed economici, nazionali e internazionali.
E che, perciò, ripensare l’assetto dello Stato e l’architettura istituzionale rappresentava un’esigenza anche del Mezzogiorno, al pari del Nord. Anche in senso federalista, ma quello vero e solidale, non punitivo verso una parte del Paese e lacerante dell’unità nazionale. Un federalismo che partisse dai comuni, dai municipi, dalle città per attivare al Sud la responsabilità diretta sia dei governati sia dei governanti nella gestione della cosa pubblica, per provare a colmare il grave deficit di «societas» e a inserire efficaci anticorpi nel decomposto tessuto sociale meridionale.
Ma il Sud non ha mai accettato la sfida, si è barricato nella resistenza (e nella retorica) della vecchia unità nazionale, giocando la partita soltanto in difesa e, proprio per questo, senza alcuna possibilità di vincerla e nemmeno di pareggiarla. Il risultato non poteva essere che scontato. Prima, gridare allo scandalo e opporsi; poi rincorrere e trattare (da posizioni di subalternità); infine accettare e quasi sempre soccombere. È quanto accaduto in questi trent’anni. La scelta del «fronte di resistenza» invece della «discesa in campo» ha finito per far entrare dalla finestra soluzioni peggiori di ciò che non si voleva far entrare dalla porta principale: un federalismo del tutto iniquo e punitivo sul piano fiscale per le città del Sud, «porcate» sui trasferimenti misurati con la spesa storica e non sui fabbisogni standard, pasticciate e disorganiche riforme delle autonomie regionali, dal titolo V della Costituzione fino al progetto originario di autonomia differenziata di alcune Regioni del Nord.
Un progetto, è bene ricordarlo, che ha visto sensibili anche alcuni governatori meridionali, primi fra tutti De Luca e Emiliano, più che solleticati dall’idea di guidare piccole Repubbliche autonome, con poteri straordinari su materie sempre più vaste e importanti. Basti pensare che appena venti giorni fa il presidente della Campania, interloquendo con Salvini a Napoli, trovò molti punti di contatto con il leader leghista proprio sulla maggiore autonomia delle Regioni.
Ieri ha etichettato come «ignobile» l’ipotesi Gelmini, ma solo perché poco conveniente. Il punto, in realtà, non è trattare per modificare il piano o attenuare gli svantaggi per il Sud. No, il punto è che l’autonomia differenziata è un progetto sbagliato, va nella direzione sbagliata delle Regioni-Stato, ed è un progetto che al Sud non può e non deve interessare. Checché ne pensino De Luca, Emiliano e i trattativisti meridionali del centrosinistra. Che cosa devono ancora dimostrare la storia e la dura realtà meridionale per capire che al Sud non servono le Regioni e, ancor meno, le Regioni-Stato?
Il bilancio del regionalismo è fallimentare su tutti i fronti nel Mezzogiorno. Chi ha dubbi rilegga il recente libro di Galli della Loggia e Schiavone. Le Regioni hanno riproposto tutti i vizi, su scala territoriale ridotta, del centralismo statalista. Sono costate molto e hanno prodotto pochissimo e malissimo, hanno alimentato gestioni opache e clientelari, hanno contribuito ad avviluppare ancora di più le spirali della società decomposta e del disordine politico, accentuando le leadership solitarie e le gestioni padronali, a tratti familistiche, delle istituzioni.
Dalla loro istituzione, il grave deficit di «societas» e di capitale sociale si è allargato, l’irresponsabilità individuale e collettiva si è ulteriormente diffusa in tutti i campi della vita civile, sociale e politica del Mezzogiorno, il «dislivello di statualità» tra Nord e Sud si è aggravato, la qualità della gestione delle istituzioni meridionali è peggiorata, la corruzione (anche al Nord) è dilagata, la ramificazione della criminalità organizzata nel tessuto amministrativo è oggi una emergenza ancora più di ieri.
In tutti i servizi minimi essenziali, dalla sanità ai trasporti, i risultati sono stati catastrofici. Ce lo dice la storia, lo confermano le date. Quanto prima il Sud esce dalla trappola del regionalismo, liberandosi dagli asfissianti blocchi di potere e cerchietti magici che esso alimenta, meglio è. Ecco perché il tavolo sull’autonomia differenziata va rovesciato. Non per «resistere» e conservare i vecchi assetti. Ma per non rincorrere più. Per non trattare più la «riduzione del danno» di una prospettiva sbagliata per il Sud. Se ne apra un altro di tavolo.
Su un progetto di federalismo vero, autentico, nel quale i bisogni del Sud possono davvero integrarsi con quelli del Nord dopo la fine del primo tempo del Risorgimento. Significherà pure qualcosa se oggi le città, più che le regioni, sono considerate a livello globale il vero motore del cambiamento, come la letteratura sociologica ed economica conferma quotidianamente? E allora, si parta da qui. Altro che regionalismo rafforzato.