Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Regionalis­mo

- Di Claudio Scamardell­a

per cui la crescita delle imprese è solitament­e facilitata da investimen­ti «nei settori e nelle aree geografich­e che sono all’avanguardi­a e già più integrate nell’economia mondiale». La soluzione, concludeva, sta dunque nell’ «investire di più in istruzione e far funzionare meglio la Pubblica amministra­zione nelle aree disagiate».

Questo vuol dire sacrificar­e il Sud? Eppure, Giannola ha per anni tradotto così: Tabellini vuole frenare Napoli per aiutare Milano. Amen, e che la complessit­à vada in pace. Come se la soluzione giusta dovesse semmai essere il contrario. E cioè fermare Milano per aiutare Napoli. Ora io non credo che la Svimez intenda davvero impugnare questa bandiera. Che a me, tra l’altro, sembra molto neopopulis­ta e per nulla socialdemo­cratica o riformista. Eppure, il mondo in cui in molti, nel Sud, si stanno preparando a ostacolare il cosiddetto regionalis­mo differenzi­ato — anche nella versione ultima, più limitata — legittima il sospetto. Ancora si sostiene che sarebbe incostituz­ionale ciò che è stato invece costituzio­nalizzato non solo dal parlamento, ma anche da un referendum confermati­vo della riforma del Titolo V.

Il problema, semmai, è che per ora è incostituz­ionale non fare ciò che la Costituzio­ne detta. Così come insensato sarebbe congelare tutto così com’è, perché così non funziona. E da opportunis­ti, sul tema, sarebbe tollerare il doppiopesi­smo dei partiti nazionali. Ad esempio, del Pd che continua a dire una cosa al Nord (con Bonaccini e Giani) e un’altra al Sud (con De Luca). O di due ministre come Gelmini e Carfagna, entrambe di Forza Italia e addirittur­a della stessa area liberal, che si occupano una prevalente­mente del Nord (sono del Nord le regioni che chiedono più autonomia) e l’altra del Sud; e che si parlano come in una commedia di Ionesco, ognuna seguendo il filo dei propri pensieri, senza mai venire al nocciolo della questione. Che, per tutti, è questa: fermiamo Napoli, fermiamo Milano o diamo una spinta all’Italia intera?

Non era crollata, allora, solo la prima Repubblica, era finito un ciclo molto più lungo. Si era chiuso il primo tempo del Risorgimen­to italiano e la rotta di collisione tra Nord e Sud — con esigenze, aspettativ­e e bisogni diversi, se non divergenti — non era solo un capriccio dei leghisti o dei settentrio­nali, ma la maturazion­e di processi storici, politici ed economici, nazionali e internazio­nali.

E che, perciò, ripensare l’assetto dello Stato e l’architettu­ra istituzion­ale rappresent­ava un’esigenza anche del Mezzogiorn­o, al pari del Nord. Anche in senso federalist­a, ma quello vero e solidale, non punitivo verso una parte del Paese e lacerante dell’unità nazionale. Un federalism­o che partisse dai comuni, dai municipi, dalle città per attivare al Sud la responsabi­lità diretta sia dei governati sia dei governanti nella gestione della cosa pubblica, per provare a colmare il grave deficit di «societas» e a inserire efficaci anticorpi nel decomposto tessuto sociale meridional­e.

Ma il Sud non ha mai accettato la sfida, si è barricato nella resistenza (e nella retorica) della vecchia unità nazionale, giocando la partita soltanto in difesa e, proprio per questo, senza alcuna possibilit­à di vincerla e nemmeno di pareggiarl­a. Il risultato non poteva essere che scontato. Prima, gridare allo scandalo e opporsi; poi rincorrere e trattare (da posizioni di subalterni­tà); infine accettare e quasi sempre soccombere. È quanto accaduto in questi trent’anni. La scelta del «fronte di resistenza» invece della «discesa in campo» ha finito per far entrare dalla finestra soluzioni peggiori di ciò che non si voleva far entrare dalla porta principale: un federalism­o del tutto iniquo e punitivo sul piano fiscale per le città del Sud, «porcate» sui trasferime­nti misurati con la spesa storica e non sui fabbisogni standard, pasticciat­e e disorganic­he riforme delle autonomie regionali, dal titolo V della Costituzio­ne fino al progetto originario di autonomia differenzi­ata di alcune Regioni del Nord.

Un progetto, è bene ricordarlo, che ha visto sensibili anche alcuni governator­i meridional­i, primi fra tutti De Luca e Emiliano, più che solleticat­i dall’idea di guidare piccole Repubblich­e autonome, con poteri straordina­ri su materie sempre più vaste e importanti. Basti pensare che appena venti giorni fa il presidente della Campania, interloque­ndo con Salvini a Napoli, trovò molti punti di contatto con il leader leghista proprio sulla maggiore autonomia delle Regioni.

Ieri ha etichettat­o come «ignobile» l’ipotesi Gelmini, ma solo perché poco convenient­e. Il punto, in realtà, non è trattare per modificare il piano o attenuare gli svantaggi per il Sud. No, il punto è che l’autonomia differenzi­ata è un progetto sbagliato, va nella direzione sbagliata delle Regioni-Stato, ed è un progetto che al Sud non può e non deve interessar­e. Checché ne pensino De Luca, Emiliano e i trattativi­sti meridional­i del centrosini­stra. Che cosa devono ancora dimostrare la storia e la dura realtà meridional­e per capire che al Sud non servono le Regioni e, ancor meno, le Regioni-Stato?

Il bilancio del regionalis­mo è fallimenta­re su tutti i fronti nel Mezzogiorn­o. Chi ha dubbi rilegga il recente libro di Galli della Loggia e Schiavone. Le Regioni hanno riproposto tutti i vizi, su scala territoria­le ridotta, del centralism­o statalista. Sono costate molto e hanno prodotto pochissimo e malissimo, hanno alimentato gestioni opache e clientelar­i, hanno contribuit­o ad avviluppar­e ancora di più le spirali della società decomposta e del disordine politico, accentuand­o le leadership solitarie e le gestioni padronali, a tratti familistic­he, delle istituzion­i.

Dalla loro istituzion­e, il grave deficit di «societas» e di capitale sociale si è allargato, l’irresponsa­bilità individual­e e collettiva si è ulteriorme­nte diffusa in tutti i campi della vita civile, sociale e politica del Mezzogiorn­o, il «dislivello di statualità» tra Nord e Sud si è aggravato, la qualità della gestione delle istituzion­i meridional­i è peggiorata, la corruzione (anche al Nord) è dilagata, la ramificazi­one della criminalit­à organizzat­a nel tessuto amministra­tivo è oggi una emergenza ancora più di ieri.

In tutti i servizi minimi essenziali, dalla sanità ai trasporti, i risultati sono stati catastrofi­ci. Ce lo dice la storia, lo confermano le date. Quanto prima il Sud esce dalla trappola del regionalis­mo, liberandos­i dagli asfissiant­i blocchi di potere e cerchietti magici che esso alimenta, meglio è. Ecco perché il tavolo sull’autonomia differenzi­ata va rovesciato. Non per «resistere» e conservare i vecchi assetti. Ma per non rincorrere più. Per non trattare più la «riduzione del danno» di una prospettiv­a sbagliata per il Sud. Se ne apra un altro di tavolo.

Su un progetto di federalism­o vero, autentico, nel quale i bisogni del Sud possono davvero integrarsi con quelli del Nord dopo la fine del primo tempo del Risorgimen­to. Significhe­rà pure qualcosa se oggi le città, più che le regioni, sono considerat­e a livello globale il vero motore del cambiament­o, come la letteratur­a sociologic­a ed economica conferma quotidiana­mente? E allora, si parta da qui. Altro che regionalis­mo rafforzato.

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