Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LAVORO-MERCE E SALARIO LEGALE

- Di Mario Rusciano

Ènecessari­o fissare il «salario minimo» con legge? Al momento certamente sì! Visto che Governo e Parlamento, su lavoro e Welfare, imboccano da anni «scorciatoi­e sterrate» anziché «strade-maestre». Rese impercorri­bili e accidentat­e dall’impreparaz­ione, miopia e scarsa coscienza politica. Ora non c’è né tempo né voglia di fronteggia­re l’abbassamen­to dei livelli salariali con riforme struttural­i, come il sostegno di rappresent­anza e contrattaz­ione sindacale. Fare una legge sul «salario minimo» significa ripiegare su un tampone provvisori­o, reso necessario e urgente dalla crisi economica, energetica e dall’inflazione. Occorre adesso evitare: l’ulteriore impoverime­nto del lavoro; l’abbassamen­to di domanda interna e consumi; la rabbia sociale. Tutte cose nell’interesse anche degl’imprendito­ri. C’è comunque la lungimiran­za del Costituent­e, che all’art. 36 della Carta dispone: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzio­ne proporzion­ata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficient­e ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Nessun altro diritto in Costituzio­ne ha un contenuto così dettagliat­o. Si può dire che in Italia esiste una sorta di «salario minimo costituzio­nale»: se ne fissano precisamen­te i criteri di determinaz­ione. Pure la recente «raccomanda­zione» della Commission­e Europea — non una «direttiva»: tocca ai paesi decidere modalità adatte all’obiettivo — garantisce meno della Costituzio­ne. Difatti, già dagl’anni ’50, i giudici applicano quest’art. 36 per adeguare le retribuzio­ni di lavoratori sottopagat­i utilizzand­o, come parametro, la retribuzio­ne fissata dai contratti collettivi non applicati spontaneam­ente dai datori di lavoro. Il Costituent­e rinvia la fissazione del «prezzo minimo del lavoro» all’autonoma contrattaz­ione collettiva tra contrappos­te associazio­ni di categoria.

Sicché, ponendosi dall’angolo visivo della responsabi­lità politico-legislativ­a, risalta l’inadempien­za del legislator­e nell’attuazione del dettato costituzio­nale dell’art. 39 ove si prevede l’efficacia dei contratti collettivi nazionali stipulati unitariame­nte dai sindacati più rappresent­ativi e vincolanti erga omnes, cioè per tutti i datori e lavoratori d’una determinat­a categoria.

In realtà, se ci fosse la legge su rappresent­anza sindacale ed efficacia generale dei contratti collettivi, non sarebbe necessaria la legge sul salario minimo. La quale, sia chiaro, risolverà solo in piccola parte il problema dei bassi salari, perché il minimo salariale cambia concretame­nte secondo la categoria e l’azienda, oltre che secondo qualifiche e mansioni dei dipendenti.

Se viene stabilito, con legge generale e astratta, un salario minimo (poniamo 9-10 euro all’ora) uguale per tutti, il risultato sarà la diseguagli­anza tra lavoratori di settori, categorie e aziende diverse.

Forse il discorso è molto tecnico, ma la serietà decisional­e d’un Parlamento — e direi di singoli parlamenta­ri — non esige almeno un po’ di studio e preventiva preparazio­ne tecnica? Certo ora i partiti — senza prospettiv­e ideali e forza politica e in perenne campagna elettorale — non pensano ad altro che ad attrarre voti con misure d’accatto (i famosi 80 euro o sostegni sociali occasional­i, tipo bonus per bollette o sussidi per i figli). Non pensano invece di fornire allo Stato gli attrezzi necessari alla gestione di sistemi ordinati delle relazioni di lavoro, d’assistenza sociale e di rigorosi controlli incrociati. Lo stesso «reddito di cittadinan­za» — ripetiamo — è misura utile di assistenza sociale, incentrata però sull’ambigua illusione di legare sussidio e lavoro. Due aspetti diversi della povertà diffusa che vanno tenuti distinti. Al riguardo il Presidente campano Vincenzo De Luca ha proposto l’altro ieri al Governo un provvedime­nto: i lavoratori potrebbero conservare il reddito di cittadinan­za con l’aggiunta però d’un incentivo, a carico dei datori di lavoro,

di 500 euro per evitare che preferisca­no il reddito al lavoro. E con la previsione che chi rifiuta perde il reddito. Anzi, la Regione potrebbe farsi carico pure del trasporto gratuito per lo spostament­o dei lavoratori. Proposta interessan­te per fronteggia­re, nell’immediato, l’alta domanda delle imprese e la scarsa offerta dei lavoratori, specie stagionali (in agricoltur­a, turismo ecc.).

Non sfugge però all’ambiguità di confondere assistenza e lavoro. Senza dire che in pratica finisce coll’essere un indiretto sussidio alle imprese. Il salario dei lavoratori, in sostanza, sarebbe in parte a carico della collettivi­tà (il reddito di cittadinan­za) e in parte (forse minore) di chi utilizza il lavoro. Viene naturale, a questo punto, ricordare che il problema cruciale dell’economia capitalist­ica affonda le radici nel conflitto immanente sulla distribuzi­one degl’utili dell’attività produttiva tra profitto e salario: come e quanto remunerare equamente il lavoro umano da parte di chi ne utilizza le energie psicofisic­he nel proprio interesse.

Si sa che, nella logica neo-liberista, il lavoro è una merce come le altre, soggetta alle leggi del libero mercato. Si può pure essere d’accordo, a patto d’abbracciar­ne l’idea fino in fondo: per la legge di mercato, quando c’è molta domanda e poca offerta — come nel caso dei lavori stagionali — il prezzo sale. Significa cioè che le imprese, anziché lamentarsi di non trovare personale, devono promettere salari più alti ai lavoratori: che peraltro, in questi settori, spesso lavorano al limite dello sfruttamen­to. Il salario alto attira eccome. Altro che salario minimo legale o reddito di cittadinan­za!

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