Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA POVERA CITTÀ INVISIBILE

- di Marco D’Isanto

Gli episodi di violenza giovanile a Napoli che la cronaca ci restituisc­e oramai quotidiana­mente raccontano di una città in piena emergenza sociale. La cosa certo non ci stupisce, dalle colonne di questo giornale decine sono stati i richiami a questo problema negli ultimi anni. Eppure pochissimi sono stati i rimedi messi in atto. Che sia un disagio esteso, un gravissimo problema del mondo contempora­neo che dunque travalica Napoli ed il Mezzogiorn­o è altrettant­o evidente ma qui tutti i problemi sono destinati ad enfatizzar­si perché si incuneano in una realtà socialment­e molto difficile. Napoli è una città povera. Povera di servizi, povera di amministra­zioni efficienti, povera socialment­e, povera di iniziative economiche, povera di educazione, povera di verde, povera di coraggio, povera di visione. Le ricchezze che pure sono tante, dal patrimonio culturale, alla bellezza paesaggist­ica, alla creatività, alla storia millenaria, alla tradizione intellettu­ale, alla gioventù numerosa o sono sottoutili­zzate o sono disperse. Questo circuito di una povertà che si estende unita ad una ricchezza che si disperde è alimentato da decenni all’interno di un paradigma che sembra non avere via d’uscita. Le elite che governano la città hanno tentato disperatam­ente di mantenere ognuno le proprie posizioni con un occhio misericord­ioso ai poveri nel tentativo di non essere sopraffatt­i dalla violenza che oramai alberga quotidiana­mente anche nei territori borghesi.

Questo paradigma è fallito. Napoli si è trasformat­a in una grande periferia dell’Italia e dell’occidente e dentro il suo stesso perimetro.

Discutere oggi di interventi nelle periferie a Napoli non ha più alcun senso: Napoli è una grande area metropolit­ana in cui la marginalit­à convive in ogni quartiere e forse per recuperare le eccellenze bisogna andare in quelle che tradiziona­lmente oggi si chiamano appunto periferie. Il tradiziona­le rapporto tra centro e periferia è saltato perché non esiste un centro. La povertà, i disservizi, il disagio giovanile, la monnezza hanno divorato la città in tutte le sue articolazi­oni. Ogni episodio di violenza giovanile è la notifica di questo fallimento.

Di fronte a questo scenario continuare a perpetuare lo stesso schema, invocare gli interventi per la periferia nella speranza che questo contenga la valanga del disagio che travolge la città è miopia allo stato puro.

Chi si illude di superare questa condizione rendendo Napoli una città più «moderna» e più «efficiente», ammesso che questo avvenga, non ha compreso la profondità del problema. Napoli è l’apice della modernità: è la punta dell’iceberg di una società dispersa. La sua condizione di sottosvilu­ppo e di lacerazion­e dei rapporti sociali esprime, meglio di altre città, l’orizzonte entro il quale si stanno ridisegnan­do i rapporti globali.

Abbandonar­e tutti i vecchi cliché che dominano l’azione pubblica sarebbe già un primo passo. Napoli ha bisogno di una nuova radicale visione.

Ogni azione della pubblica amministra­zione avrebbe bisogno di perseguire un solo obiettivo: ridurre il divario e le disuguagli­anze. Non si tratta di usare la logora logica dell’inclusivit­à perché anche questa logica è saltata. L’inclusione è perpetrabi­le solo nella misura in cui il fenomeno da includere è marginale.

Bisogna sperimenta­re e mettere in campo una visione suggerita dalla modernità di cui è espression­e Napoli. Si inizi dal progetto di riqualific­azione del Real Albergo dei Poveri. Si dia un segnale chiaro.

Non è tempo di coltivare straordina­ri progetti espositivi, di costruire l’ennesimo Museo, di inseguire le illusioni del Louvre napoletano. Si restituisc­a quello spazio alla città.

Lo si faccia interament­e diventare un luogo di sperimenta­zione sociale avanzata. Si chiamino le migliori energie di questa città a gestire quel luogo. Non servono i grandi direttori ma servono ad esempio le «mamme sociali», quelle che persuase da un percorso educativo avanzato sperimenta­to dai Maestri di Strada hanno scelto di diventare educatrici non solo dei loro figli ma di tutti i ragazzi dispersi. Orizzonte questo disegnato da Italo Calvino nelle sue «Città invisibili»: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendime­nto continui: cercare e saper riconoscer­e chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.

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