Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA POVERA CITTÀ INVISIBILE
Gli episodi di violenza giovanile a Napoli che la cronaca ci restituisce oramai quotidianamente raccontano di una città in piena emergenza sociale. La cosa certo non ci stupisce, dalle colonne di questo giornale decine sono stati i richiami a questo problema negli ultimi anni. Eppure pochissimi sono stati i rimedi messi in atto. Che sia un disagio esteso, un gravissimo problema del mondo contemporaneo che dunque travalica Napoli ed il Mezzogiorno è altrettanto evidente ma qui tutti i problemi sono destinati ad enfatizzarsi perché si incuneano in una realtà socialmente molto difficile. Napoli è una città povera. Povera di servizi, povera di amministrazioni efficienti, povera socialmente, povera di iniziative economiche, povera di educazione, povera di verde, povera di coraggio, povera di visione. Le ricchezze che pure sono tante, dal patrimonio culturale, alla bellezza paesaggistica, alla creatività, alla storia millenaria, alla tradizione intellettuale, alla gioventù numerosa o sono sottoutilizzate o sono disperse. Questo circuito di una povertà che si estende unita ad una ricchezza che si disperde è alimentato da decenni all’interno di un paradigma che sembra non avere via d’uscita. Le elite che governano la città hanno tentato disperatamente di mantenere ognuno le proprie posizioni con un occhio misericordioso ai poveri nel tentativo di non essere sopraffatti dalla violenza che oramai alberga quotidianamente anche nei territori borghesi.
Questo paradigma è fallito. Napoli si è trasformata in una grande periferia dell’Italia e dell’occidente e dentro il suo stesso perimetro.
Discutere oggi di interventi nelle periferie a Napoli non ha più alcun senso: Napoli è una grande area metropolitana in cui la marginalità convive in ogni quartiere e forse per recuperare le eccellenze bisogna andare in quelle che tradizionalmente oggi si chiamano appunto periferie. Il tradizionale rapporto tra centro e periferia è saltato perché non esiste un centro. La povertà, i disservizi, il disagio giovanile, la monnezza hanno divorato la città in tutte le sue articolazioni. Ogni episodio di violenza giovanile è la notifica di questo fallimento.
Di fronte a questo scenario continuare a perpetuare lo stesso schema, invocare gli interventi per la periferia nella speranza che questo contenga la valanga del disagio che travolge la città è miopia allo stato puro.
Chi si illude di superare questa condizione rendendo Napoli una città più «moderna» e più «efficiente», ammesso che questo avvenga, non ha compreso la profondità del problema. Napoli è l’apice della modernità: è la punta dell’iceberg di una società dispersa. La sua condizione di sottosviluppo e di lacerazione dei rapporti sociali esprime, meglio di altre città, l’orizzonte entro il quale si stanno ridisegnando i rapporti globali.
Abbandonare tutti i vecchi cliché che dominano l’azione pubblica sarebbe già un primo passo. Napoli ha bisogno di una nuova radicale visione.
Ogni azione della pubblica amministrazione avrebbe bisogno di perseguire un solo obiettivo: ridurre il divario e le disuguaglianze. Non si tratta di usare la logora logica dell’inclusività perché anche questa logica è saltata. L’inclusione è perpetrabile solo nella misura in cui il fenomeno da includere è marginale.
Bisogna sperimentare e mettere in campo una visione suggerita dalla modernità di cui è espressione Napoli. Si inizi dal progetto di riqualificazione del Real Albergo dei Poveri. Si dia un segnale chiaro.
Non è tempo di coltivare straordinari progetti espositivi, di costruire l’ennesimo Museo, di inseguire le illusioni del Louvre napoletano. Si restituisca quello spazio alla città.
Lo si faccia interamente diventare un luogo di sperimentazione sociale avanzata. Si chiamino le migliori energie di questa città a gestire quel luogo. Non servono i grandi direttori ma servono ad esempio le «mamme sociali», quelle che persuase da un percorso educativo avanzato sperimentato dai Maestri di Strada hanno scelto di diventare educatrici non solo dei loro figli ma di tutti i ragazzi dispersi. Orizzonte questo disegnato da Italo Calvino nelle sue «Città invisibili»: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.