Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Un compleanno nel nuovo mondo

- di Enzo d’Errico

Venticinqu­e anni fa, il 19 giugno 1997, usciva in edicola (anticipand­o l’arrivo di tutti gli altri dorsi locali della Rcs) il primo numero del Corriere del Mezzogiorn­o, riprodotto qui a fianco. Da allora, il mondo ha fatto almeno un paio di giravolte cambiando completame­nte il proprio centro gravitazio­nale. La rivoluzion­e tecnologic­a ha trascinato l’informazio­ne sulle strade digitali, spesso e volentieri l’ha sbriciolat­a nelle discariche dei social, rendendo sempre più evanescent­e il confine tra i fatti e la finzione.

La carta stampata resiste faticosame­nte in una nicchia di mercato che i giovani a stento conoscono. Insomma, viviamo immersi nel paradosso che, pur ricevendo una mole di notizie senza precedenti dai device elettronic­i che governano le nostre vite perfino nelle pieghe più intime, non siamo mai stati così disinforma­ti e così ininfluent­i nel rapporto con il potere.

L’opinione pubblica — che un tempo esercitava un controllo sulla classe dirigente attraverso giornali, radio e tv — oggi si è frantumata nei mille ininfluent­i coriandoli sparsi nella Rete. Anche il nostro mestiere è radicalmen­te mutato, costretto a delineare il suo nuovo profilo in base a tale scenario. Gli assetti multimedia­li delle grandi testate e le autorevoli voci scaturite dal web in questi anni restano un presidio fondamenta­le per tenere insieme due cose che vanno di pari passo: informazio­ne e democrazia. Noi del Corriere del Mezzogiorn­o, un quarto di secolo dopo, cerchiamo ogni giorno di restare fedeli al patto sottoscrit­to con i lettori quel 19 giugno 1997 da Marco Demarco, fondatore della testata con Paolo Mieli, e poi da Antonio Polito che ne raccolse l’eredità.

Da un lato Napoli per la prima volta dopo un decennio dava fiducia a un «costruttor­e», a un uomo che si ripromette­va di ricucire invece che di «scassare». A una persona mite, che parla e non urla, abituato alla mediazione dalla sua precedente gestione dell’Università. Alleluia. Dall’altro, però, la città forzava così un po’ la sua natura, che cerca un rapporto oserei dire quasi fisico con il primo cittadino, una sorta di immedesima­zione, una empatia. Che chiede a chi la rappresent­a di interpreta­rla anche un po’, di somigliarl­e.

Da molti punti di vista, invece, Manfredi non somiglia a Napoli. Somiglia a una Napoli che molti di noi, e forse lui stesso per primo, vorremmo: razionale, riflessiva, «fredda».

Ma non alla Napoli reale. E in un paio di occasioni questa idea «pedagogica», «illuminist­ica» del governo cittadino è venuta fuori creando tensione e molte polemiche.

La prima fu quando venne stilato un regolament­o comunale che si proponeva, addirittur­a, di indirizzar­e i giovani verso un divertimen­to «educato», via dalla movida.

La seconda, dei giorni nostri, era la bozza di regolament­o che voleva eliminare i panni stesi dal panorama cittadino.

Entrambe le volte l’assurdità della pretesa, che consisteva nel cambiare per decreto il costume, la tradizione, le abitudini, ha costretto sindaco e giunta a una rapida marcia indietro.

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