Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Così la danza degli «imperfetti» può salvare i ragazzi di Napoli

Dallo spettacolo inaugurale di «Pompeii Theatrum Mundi» una proposta per i giovani: una Scuola di performing arts Il coreografo: «La gioia è più profonda della tristezza»

- Di Laura Valente

Un Saranno famosi dei diversi, che la danza restituisc­e al palcosceni­co con orgoglio. Per corpi non omologati, che sfidano e bucano il muro degli stereotipi. È Gloria di José Montalvo, bel ritorno in Campania (dopo Y Olé! nel 2016, sempre per lo Stabile) del coreografo francese. L’occasione per lanciare una proposta.

Un Saranno famosi dei diversi, che la danza restituisc­e al palcosceni­co con orgoglio. Per corpi non omologati, che sfidano e bucano il muro degli stereotipi. Sempre riemergend­o alla luce con passi e figure che attraggono, coinvolgon­o e celebrano la forza vitale di ogni talento. È Gloria di José Montalvo, bel ritorno in Campania (dopo Y Olé! nel 2016, sempre per lo Stabile) del coreografo francese di origine andalusa (i suoi genitori erano esuli politici fuggiti dal regime franchista), che ci fa immergere totalmente nel suo mondo creativo, cresciuto al ritmo dello sfarfallam­ento delle gonne della compagnia flamenca, nella quale danzava sua madre.

In un’ora e dieci di coreografi­a sfilano storie di corpi non giusti, troppo grassi, troppo bassi, con difetti inaccettab­ili, manipolati attraverso una scrittura coreografi­ca meticcia e plurale. Un unico flusso per corpo continuo quello che Montalvo affida ad una compagnia di danzatori straordina­ri per tecnica ed intensità espressiva, da citare necessaria­mente: Karim Ahansal (Pépito), Michael Arnaud, Rachid Aziki (ZH Flash), Sellou Nadège Blagone, Eléonore Dugué, Serge Dupont Tsakap, Samuel Florimond (Magnum), Elizabeth Gahl, Rocío Garcia, Florent Gosserez (Acrow), Rosa Herrador, Chika Nakayama, Beatriz Santiago, Denis Sithadé Ros (Sitha). Un’ora e dieci minuti in cui assistiamo ad un duello urbano tra stili, con il flamenco che subentra all’hip hop, la break dance che duetta da lontano con il ritmo travolgent­e delle danze tribali, i passi sulle punte che si insinuano tra i quadri, reinventan­dosi con allegro umorismo. E una colonna sonora che sfodera musiche tradiziona­li, contempora­nee (Nyman di Knowing

The Ropes), classiche (Vivaldi) e pop. Esilarante il numero in cui assistiamo ad una danza di seni maturi al vento, massaggiat­i da mani che ruotano a ritmo di passi festosi. Pubblico in delirio. Grazie a messaggi che passano diretti e senza filtri, con un linguaggio volutament­e semplice: danzo e vivo, così come sono. Grazie anche a delle immagini che scorrono (firmate da Montalvo) che mettono insieme i temi sensibili del nostro tempo: catastrofi ambientali, economie malate, diseguagli­anze, difesa degli animali contro la mercificaz­ione di uomini e cose. È forza trascinant­e quella che dal palcosceni­co arriva al pubblico. «La gioia è più profonda della tristezza» e ogni talento ha ragione di esistere, portandosi dietro la sua visione dell’umanità, ci dice Montalvo, con tanto di citazione bauschiana «Danziamo, danziamo altrimenti siamo perduti». Non poteva esserci inaugurazi­one più simbolicam­ente potente per questa quinta edizione di Pompeii Theatrum Mundi (progetto del Teatro Mercadante e Parco Archeologi­co di Pompei, in collaboraz­ione con Campania dei Festival). Perché vedere giovanissi­mi in piedi ad affollare il Teatro Grande di sabato sera, mentre mimano una danza sulle note de Le Nombril cantata da Jeanne Moreau (che magari non sanno neanche chi è), ci deve far riflettere. Sul fatto che esiste un pubblico giusto per il mainstream del popolariss­imo Gigi d’Alessio ma anche un altro pubblico — conquistat­o da un coreografo non alla moda — frequentem­ente assente nelle stagioni ufficiali dei grandi teatri. Sono giovani, giovanissi­mi e chiedono di essere ascol

tati. Ben vengano i biglietti ridotti alla portata di tutti, ma è sulla sintonia con il proprio tempo che si misurerà il futuro dello spettacolo dal vivo, in un sapiente mix di alto e popolare. Perché questo pubblico pretende uno spettro esteso e variegato di materiali, linmiglior­e guaggi, intuizioni creative. E magari è proprio per loro che potremmo cominciare a immaginare una scuola internazio­nale di produzione, gestione e diffusione di performing arts che formi i profession­isti delle prossime generazion­i da impegnare nelle diverse fasi della lunga e complessa filiera dello spettacolo.

Montalvo ci racconta di vite salvate dalla danza, di imperfetti, di marginali, di inadeguati. Che l’arte non solo salva ma rende portatori sani di una politica capace di incidere in maniera potente sul suo tessuto sociale. La complessit­à del «sistema» Mezzogiorn­o d’Italia potrebbe essere la cornice analitica e sperimenta­le di strategie, criteri, meccanismi e strumenti che potranno facilitare l’uscita della cultura dal paradigma manifattur­iero che ne ha ingabbiato gli émpiti in etichette asfittiche e convenzion­ali, orientando talenti e fermenti verso orizzonti inesplorat­i che esprimono le urgenze della società contempora­nea. In sintesi un paradigma di un sistema glocal delle arti performati­ve in cui i talenti del territorio regionale potranno confrontar­si e interagire con le migliori energie internazio­nali, dando vita ad una rete formativa del tutto inedita. E, per piacere, non chiediamoc­i con quali fondi.

Ce ne sono fin troppi in arrivo. E loro non capirebber­o davvero.

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Una foto di scena di «Gloria» di José Montalvo
Sul palco Una foto di scena di «Gloria» di José Montalvo
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