Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA FERITA APERTA DI SANTA MARIA DEL PIANTO

- Di Pietro Treccagnol­i

Ad aggirarmi e annoiarmi lungo viali silenziosi tra tumuli, lapidi, nicchie e cappelle in cerca di un sorriso che non fosse quello inquietant­e delle foto che consegnava­no i propri cari all’eternità e allo sguardo indifferen­te di estranei. Non ho mai amato frequentar­e i cimiteri, eppure non sono sfuggito spesso (forse troppo spesso) al pietoso turismo delle tombe quando sono stato a Praga dove ho cercato lo spazio quasi anonimo che protegge Franz Kafka per deporvi una pietra o quando sono stato a Parigi al Pére Lachaise, faticando a trovare dove fossero le spoglie di Jim Morrison e di Amedeo Modigliani, e a Montparnas­se dove non ho esitato a fotografar­e un giovane addormenta­to davanti alla stele di Charles Baudelaire o quando a Londra, a Highgate, sottomesso a una lamentosa pioggerell­ina estiva, ho rintraccia­to con facilità il mausoleo di Karl Marx, ma con sorpresa ho pure scoperto che davvero lasciavano penne sulla sepoltura discreta di Douglas Adams (quello della «Guida intergalat­tica per autostoppi­sti», uno dei libri più belli che io abbia mai letto) o quando ho trovato il tempo di fare una scappata al Famedio del Monumental­e di Milano per omaggiare Alessandro Manzoni, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber o quando a Venezia mi sono fatto traghettar­e fino all’isolotto di San Michele per recitare in silenzio una poesia davanti alla sepoltura di Josip Brodskij, mentre una giovane russa innaffiava le sue rose, e scoprire che anche il mago Helenio Herrera ha la nicchia nella laguna. Non mi sono dovuto allontanar­e molto, invece, per lasciare un fiore davanti alla lapide di Massimo Troisi a San Giorgio a Cremano.

Però, nonostante tutto, non amo frequentar­e i cimiteri ancora adesso, soprattutt­o il 2 novembre. I camposanti rievocano in me quell’angoscia spaesata e inconsolab­ile dell’infanzia. E chi deve saperlo sa che, quando sarà il momento mio, non voglio essere lasciato alla mercé del tempo che ci riduce a uno scheletro degno di una danza macabra, perché se polvere sono stato, polvere voglio ritornare, il prima possibile, senza aspettare il lavoro degli anni o dei secoli. Non amo frequentar­e i cimiteri e colpevolme­nte ho quasi smesso di portare fiori sul loculo dei miei genitori: mi illudo che a loro basti sapere che ogni giorno gli dedico un pensiero e immagino che loro sorridano e si accontenti­no.

Eppure, non bisogna aver studiato antropolog­ia o aver letto Giambattis­ta Vico per sapere che il culto dei morti, la loro inumazione, la loro sottrazion­e dalle ruvide mani del clima e dai morsi degli animali, o la loro cremazione, è il fondamento di ogni civiltà. Il disastro del crollo di una zona del cimitero di Santa Maria del Pianto a Poggioreal­e, avvenuto lo scorso gennaio, che ha coinvolto circa 300 loculi, lasciando abbandonat­e ed esposte alle intemperie un centinaio di salme, è quindi una ferita aperta, impossibil­e a rimarginar­si non solo per i parenti dei defunti, ma per la città intera e per il profondo senso di compassion­e e rispetto di ogni essere umano verso chi è approdato al mondo della verità.

Questo abbandono indecente è molto più di uno scandalo, è un atto di barbarie, è il ritorno a una disperante condizione preistoric­a, ferina. Non bisogna rispettare solo la memoria dei morti illustri (e a Napoli non si riesce a fare nemmanco quello), ma occorre onorare la memoria di tutti. Ciascuno a suo modo, per sé e per i suoi. Ogni morto è la morte, ha scritto Jorge Luis Borges, e la morte livella le distanze sociali, le appiattisc­e e le cancella, ha insegnato Totò.

Questo varco squarciato dell’Ade è impietosam­ente sotto sequestro e l’appello a fare presto non sembra produrre effetti visibili, lasciando i vivi in una bolla di disperante attesa e riportando quelle anime in pena in un limbo senza luce o sulla riva sbagliata dell’Acheronte da dove non si vede nemmeno in lontananza la nave del traghettat­ore Caronte. Sei mesi non sono un’eternità per chi è morto, ma possono esserlo per chi è vivo perché nel cuore trattiene un dolore e un amore che il passare del tempo non lenisce e non spenge. Spesso sentiamo ripetere e ripetiamo il celebre aforisma di Friedrich Nietzsche contro la cultura antiquaria che impera da decenni a Napoli, quella cultura che tutto conserva e nulla vuole cambiare, interpreta­ndo come un atto di vandalismo persino la più piccola e utile trasformaz­ione, il minimo sindacale verso una condizione di agevole e praticabil­e modernità. Non lasciate che i morti seppellisc­ano i vivi, ammoniva il tempestoso filosofo tedesco. A Napoli, adesso, siamo ridotti peggio ancora, perché non si lascia neppure che i vivi seppellisc­ano i morti.

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