Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA FERITA APERTA DI SANTA MARIA DEL PIANTO
Ad aggirarmi e annoiarmi lungo viali silenziosi tra tumuli, lapidi, nicchie e cappelle in cerca di un sorriso che non fosse quello inquietante delle foto che consegnavano i propri cari all’eternità e allo sguardo indifferente di estranei. Non ho mai amato frequentare i cimiteri, eppure non sono sfuggito spesso (forse troppo spesso) al pietoso turismo delle tombe quando sono stato a Praga dove ho cercato lo spazio quasi anonimo che protegge Franz Kafka per deporvi una pietra o quando sono stato a Parigi al Pére Lachaise, faticando a trovare dove fossero le spoglie di Jim Morrison e di Amedeo Modigliani, e a Montparnasse dove non ho esitato a fotografare un giovane addormentato davanti alla stele di Charles Baudelaire o quando a Londra, a Highgate, sottomesso a una lamentosa pioggerellina estiva, ho rintracciato con facilità il mausoleo di Karl Marx, ma con sorpresa ho pure scoperto che davvero lasciavano penne sulla sepoltura discreta di Douglas Adams (quello della «Guida intergalattica per autostoppisti», uno dei libri più belli che io abbia mai letto) o quando ho trovato il tempo di fare una scappata al Famedio del Monumentale di Milano per omaggiare Alessandro Manzoni, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber o quando a Venezia mi sono fatto traghettare fino all’isolotto di San Michele per recitare in silenzio una poesia davanti alla sepoltura di Josip Brodskij, mentre una giovane russa innaffiava le sue rose, e scoprire che anche il mago Helenio Herrera ha la nicchia nella laguna. Non mi sono dovuto allontanare molto, invece, per lasciare un fiore davanti alla lapide di Massimo Troisi a San Giorgio a Cremano.
Però, nonostante tutto, non amo frequentare i cimiteri ancora adesso, soprattutto il 2 novembre. I camposanti rievocano in me quell’angoscia spaesata e inconsolabile dell’infanzia. E chi deve saperlo sa che, quando sarà il momento mio, non voglio essere lasciato alla mercé del tempo che ci riduce a uno scheletro degno di una danza macabra, perché se polvere sono stato, polvere voglio ritornare, il prima possibile, senza aspettare il lavoro degli anni o dei secoli. Non amo frequentare i cimiteri e colpevolmente ho quasi smesso di portare fiori sul loculo dei miei genitori: mi illudo che a loro basti sapere che ogni giorno gli dedico un pensiero e immagino che loro sorridano e si accontentino.
Eppure, non bisogna aver studiato antropologia o aver letto Giambattista Vico per sapere che il culto dei morti, la loro inumazione, la loro sottrazione dalle ruvide mani del clima e dai morsi degli animali, o la loro cremazione, è il fondamento di ogni civiltà. Il disastro del crollo di una zona del cimitero di Santa Maria del Pianto a Poggioreale, avvenuto lo scorso gennaio, che ha coinvolto circa 300 loculi, lasciando abbandonate ed esposte alle intemperie un centinaio di salme, è quindi una ferita aperta, impossibile a rimarginarsi non solo per i parenti dei defunti, ma per la città intera e per il profondo senso di compassione e rispetto di ogni essere umano verso chi è approdato al mondo della verità.
Questo abbandono indecente è molto più di uno scandalo, è un atto di barbarie, è il ritorno a una disperante condizione preistorica, ferina. Non bisogna rispettare solo la memoria dei morti illustri (e a Napoli non si riesce a fare nemmanco quello), ma occorre onorare la memoria di tutti. Ciascuno a suo modo, per sé e per i suoi. Ogni morto è la morte, ha scritto Jorge Luis Borges, e la morte livella le distanze sociali, le appiattisce e le cancella, ha insegnato Totò.
Questo varco squarciato dell’Ade è impietosamente sotto sequestro e l’appello a fare presto non sembra produrre effetti visibili, lasciando i vivi in una bolla di disperante attesa e riportando quelle anime in pena in un limbo senza luce o sulla riva sbagliata dell’Acheronte da dove non si vede nemmeno in lontananza la nave del traghettatore Caronte. Sei mesi non sono un’eternità per chi è morto, ma possono esserlo per chi è vivo perché nel cuore trattiene un dolore e un amore che il passare del tempo non lenisce e non spenge. Spesso sentiamo ripetere e ripetiamo il celebre aforisma di Friedrich Nietzsche contro la cultura antiquaria che impera da decenni a Napoli, quella cultura che tutto conserva e nulla vuole cambiare, interpretando come un atto di vandalismo persino la più piccola e utile trasformazione, il minimo sindacale verso una condizione di agevole e praticabile modernità. Non lasciate che i morti seppelliscano i vivi, ammoniva il tempestoso filosofo tedesco. A Napoli, adesso, siamo ridotti peggio ancora, perché non si lascia neppure che i vivi seppelliscano i morti.