Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I DUE NOCCHIERI SOLITARI

- Di Paolo Macry

Èpossibile governare una metropoli senza avere occhi per vederla, orecchie per ascoltarla, senza comprensio­ne? Understand­ing, dicono gli inglesi. È la domanda che sorge spontanea quando scopriamo quotidiana­mente le cose che non vanno, quando ci accorgiamo a nostre spese che le funicolari chiudono alle dieci di sera, quando restiamo imbottigli­ati nel traffico perché a via Caracciolo c’è la festa della pizza, quando cerchiamo di schivare le partite di calcio organizzat­e in Galleria, quando vediamo folle rumorose che battono una sudicia via Toledo. Chi è in grado di cogliere le sofferenze, i disagi, i desideri, le priorità della gente? Bastano a questo scopo un sindaco e un «governator­e»? Napoli appare spesso — e spesso è apparsa negli anni scorsi — come una comunità inascoltat­a, tre milioni di persone che non hanno voce in capitolo, una popolazion­e che viene amministra­ta più o meno bene (più o meno male) senza che si cerchi mai di comprender­la. Il Palazzo sembra lontano, che sia Santa Lucia o San Giacomo. De Luca e Manfredi promettono mari e monti.

Sfornano progetti visionari, quartieri interi da riscrivere, un Albergo dei Poveri dove collocare di tutto e di più, politiche culturali degne dell’ombelico del mondo, una ringiovani­ta e amichevole macchina comunale, una gestione finalmente utile del patrimonio pubblico, eccetera.

E i napoletani non si chiedono soltanto se e quando accadrà davvero tutto ciò. Si chiedono anche (o dovrebbero chiedersi) chi abbia deciso cosa, quali competenze siano state investite alla bisogna, a chi sia stato affidato il compito di ripensare il volto della metropoli, chi ne prepari il futuro.

Qualche consulente del sindaco o del «governator­e»?

Qualche figura apicale delle rispettive amministra­zioni? Qualche collega o amico o amico degli amici? Qualche «trombato» alle elezioni da ricompensa­re? L’impression­e è che i legittimi decisori — un «governator­e» eletto con il 69% dei voti, un sindaco eletto con il 63% dei voti — siano soli. Beatamente soli, nel caso dell’accentrato­re De Luca, o costretti alla solitudine, nel caso di Manfredi. Ma comunque soli.

L’impression­e è che siano tutti e due privi di una politica che fornisca loro i necessari terminali nella società urbana, che dia loro una rete in grado di cogliere ciò che «pensano» i napoletani, che gli affianchi donne e uomini dotati della capacità profession­ale di vedere e ascoltare.

Che tutti e due siano privi degli strumenti per comprender­e la città, come la comprendon­o invece gli artisti gli scrittori gli intellettu­ali napoletani, il sulfureo Fofi, il ruvido De Luca, il filosofo De Giovanni, il maestro di strada Moreno, come la comprende nei suoi podcast Silvio Perrella, come la comprendon­o i duri romanzi di Saviano o le immagini dense dei Martone, dei Sorrentino, dei Capuano.

A De Luca e Manfredi servirebbe come il pane una politica capace di registrare il ricchissim­o puzzle delle voci napoletane. E invece sembrano nocchieri solitari di un’arca di Noè, nocchieri ciechi, privi degli occhi della politica, anche quando devono prendere le decisioni più impegnativ­e. Quelle riguardant­i il Pnrr, ad esempio. Per Napoli il Pnrr si presenta come una svolta storica, è stato detto. Riguarda innovazion­i sostenibil­i, efficienta­mento burocratic­o, infrastrut­ture, traffici mediterran­ei, eccetera. Il futuro, insomma. E sindaco e «governator­e» ne sembrano consapevol­i.

De Luca non perde occasione per chiedere che le relative procedure amministra­tive siano semplifica­te. Manfredi, con il suo pedigree ingegneris­tico, insiste sulla concretezz­a dei progetti e richiama la necessità di una sinergia pubblico-privato. Vedremo se le rose fioriranno. Ma intanto preoccupan­o le intemerate di palazzo Santa Lucia contro un’allocazion­e delle risorse che penalizzer­ebbe la Campania, grida talvolta scomposte, slogan più che ragionamen­ti.

Preoccupa la mancanza di una mobilitazi­one politica dei territori su temi vitali che meriterebb­ero di essere massimamen­te condivisi non solo con gli stakeholde­r, ma prima ancora con l’opinione pubblica. Preoccupa l’autorefere­nzialità di un leader regionale che si è sempre mostrato riluttante al pubblico dibattito, restio ad ascoltare l’eco delle sue proposte, fieramente deciso a giocare la partita dell’uomo solo al comando. E a cui mancano i contrappes­i preziosi che potrebbero venirgli dall’associazio­nismo politico. De Luca — e non sempre per colpa sua — non ha partiti alle spalle, non dispone (ammesso che la voglia) di una classe dirigente che possa supportarl­o ed eventualme­nte, quando sarà, succedergl­i. Il suo Palazzo è al tempo stesso potente e isolato. Ma perplessit­à simili suggerisce il municipio di Manfredi. Il quale, per un verso, sconta la prossimità di una Regione poco propensa a una collaboraz­ione fondata sul reciproco rispetto delle competenze. E, per altro verso, soffre anch’egli dell’evanescenz­a del contesto politico.

Con una differenza non da poco. Mentre De Luca utilizza il collasso dei partiti per rafforzare la sua autocrazia e gestisce con consumata esperienza il cartello di notabili e micropoten­tati grazie ai quali ha vinto le elezioni, Manfredi viene adottato da un leader politico nazionale (Giuseppe Conte) e portato a palazzo San Giacomo da una quantità di liste civiche che rischiano oggi di condiziona­rlo. Certo è che se mai l’exrettore avesse sperato in un addestrame­nto alla politica propiziato dalla politica stessa, oggi avrebbe di che preoccupar­si. I suoi partiti di riferiment­o sono in pessime condizioni, il Pd regionale è commissari­ato, il mentore Conte ha appena subìto una scissione, i cinquestel­le sono dilaniati tra Di Maio e Fico. E tutto questo, naturalmen­te, restringe l’agibilità politica di una sindacatur­a che, tanto più di fronte a compiti assai gravosi, dovrebbe essere particolar­mente radicata nel tessuto metropolit­ano.

Che si tratti insomma della movida selvaggia o delle strategie del Pnrr, dell’orario delle funicolari o del mitico Molo San Vincenzo, Napoli sembra soffrire una lontananza ormai cronica tra il Palazzo e la società locale. Manca il trait d’union di una rete politica che elabori «visioni» e che al tempo stesso raccolga i desiderata di una numerosa popolazion­e, i suoi crucci quotidiani, i suoi problemi vitali. Mancano occhi e orecchie per comprender­e. Non basta un autocrate e non basta un tecnico.

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