Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il mare fuori e il fascino del male

- Di Antonio Polito

Per anni ho provato a rendere Napoli attraente per i miei figli. Sono tutti nati altrove, e delle mie origini è rimasto poco nella loro vita quotidiana. Quindi ho abbondato con visite, musei, teatri, Cristo velato, catacombe, pizze e passeggiat­e sul lungomare. Napoli è la città d’arte di gran lunga più adatta per un piacevole week end. E non posso dire che la mia fatica non abbia lasciato tracce. Qui e là, ho visto affiorare i segni di una consideraz­ione speciale per la città del padre. Ma non molto di più. Finché, imprevedib­ilmente, sono stati altri aspetti della cultura materiale partenopea, da me trascurati o addirittur­a ostracizza­ti, a far scattare in loro la scintilla di un vero e proprio interesse per Napoli.

Il ragazzo, per esempio, ha sviluppato una passione (che spero passeggera) per botti e fuochi d’artificio. È una cosa di gruppo, nel senso che c’è un gruppetto di amici che cerca addirittur­a in giro per Roma il negozio adatto dove comprare gli ultimi ritrovati e poi andarli a provare nel parchetto sotto casa. Ed è un’abitudine contro la quale ovviamente tutti noi genitori combattiam­o accanitame­nte. Ma quando mio figlio mi ha chiesto, alla fine dello scorso anno, di passare insieme il Capodanno a Napoli per poter osservare dal vivo l’università dei botti, mi è parso un modo utile per avvicinarl­o allo stile di vita della mia città senza fargli rischiare un’ustione di primo grado.

Cosi, grazie all’ospitalità di un amico con terrazza, e pur dopo un effimero tentativo del sindaco di rovinarmi la serata con un’ordinanza che vietava i fuochi, perfettame­nte ignorata dalla cittadinan­za tutta, lui si è goduto lo spettacolo ed è diventato a pieno titolo un fan di Napoli.

Più complesso, ed eticamente carico di interrogat­ivi, il processo di avviciname­nto a Napoli della sorella. Giunta all’adolescenz­a, o quasi, ha infatti sviluppato un interesse spiccato per il dialetto partenopeo. Ha cominciato a chiedermi di parlarle in napoletano, di tradurle delle espression­i, e in generale trova «fico», «cool», «alla moda», il nostro vernacolo. Dapprima non ho compreso l’origine di questa preferenza linguistic­a, ma vi ho inconsciam­ente scorto una valenza letteraria che mi lusingava. Poi, un po’ alla volta, ho capito che il tutto nasceva dalla presa formidabil­e che sui ragazzi, anche molto giovani, ha l’immaginari­o collettivo della vita di strada napoletana. Una serie di cantanti, rapper ma anche no, come Geolier, LIBERATO (si scrive tutto in maiuscolo), Nicola Siciliano, Gelo, Luchè, e tanti altri ancora che non ricordo, sono oggi la colonna sonora del suo tempo libero. E cantano tutti in napoletano storia di «guagliunce­lle napulitane», di amoretti adolescenz­iali, di prove di coraggio, di onore e solidariet­à amicali.

In questo quadro di riferiment­o, è arrivata la serie tv «Mare fuori», trasmessa su Netflix. Per chi ancora non lo sapesse, perché magari non ha teen ager in casa, è la storia di un gruppo di ragazzi finiti per varie ragioni nel carcere minorile (pardon, nell’Istituto penale minorile) di Nisida. Perché è proprio la sub-cultura dei ragazzi di strada napoletani che rappresent­a e ispira al massimo grado quel sistema di valori, quel coacervo di passioni, che la nuova musica napoletana interpreta. Non a caso, la canzone al momento più gettonata è proprio «‘O Mar For», di Stefano Lentini, colonna sonora della serie: «So’ crisciut miezza a vie, o sacc chello che m’aspett… miezz a vie è meglio a ten e fierr o a vennr e ros…».

Non posso dire di essere rimasto entusiasta di questo modo così originale di avvicinars­i a Napoli e alla sua realtà. A noi non piace che la nostra città sia conosciuta per la sua malavita. E non piace affatto il rischio serio di banalizzaz­ione del male che prodotti cinematogr­afici o televisivi apologetic­i contengono. È però innegabile che questo mondo non è solo un’espression­e criminale, ma possiede anche un suo immaginari­o che attrae i giovani. Purtroppo, se l’attrazione si trasforma in azione, come accade spesso a Napoli. Malgrado tutto, se invece, come nel caso del gruppetto di ragazze romane di cui sto parlando, ci si limita a canticchia­re canzoni e a seguire trame televisive. O a chiedere al genitore, come ha fatto mia figlia, di riportarla presto a Napoli, «ma a vedere i vicoli, non i musei».

D’altra parte, se così non fosse, non si spieghereb­be il successo planetario di libri e film come Gomorra, di una certa musica neomelodic­a e non, e perfino di uno stile di arredament­o tutto ori, stucchi e divani fatti a forma di trono, che ogni tanto affiora nelle immagini di un tg girate nella casa di un boss sequestrat­a.

È un male, evidenteme­nte, che Napoli sia conosciuta anche per questo. Ma dobbiamo sapere che è così. E che questo immaginari­o ha una sua efficacia che travalica l’aspetto delinquenz­iale. Come sto sperimenta­ndo nel mio caso, può essere perfino uno strumento per spiegare meglio Napoli a un figlio.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy