Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il mare fuori e il fascino del male
Per anni ho provato a rendere Napoli attraente per i miei figli. Sono tutti nati altrove, e delle mie origini è rimasto poco nella loro vita quotidiana. Quindi ho abbondato con visite, musei, teatri, Cristo velato, catacombe, pizze e passeggiate sul lungomare. Napoli è la città d’arte di gran lunga più adatta per un piacevole week end. E non posso dire che la mia fatica non abbia lasciato tracce. Qui e là, ho visto affiorare i segni di una considerazione speciale per la città del padre. Ma non molto di più. Finché, imprevedibilmente, sono stati altri aspetti della cultura materiale partenopea, da me trascurati o addirittura ostracizzati, a far scattare in loro la scintilla di un vero e proprio interesse per Napoli.
Il ragazzo, per esempio, ha sviluppato una passione (che spero passeggera) per botti e fuochi d’artificio. È una cosa di gruppo, nel senso che c’è un gruppetto di amici che cerca addirittura in giro per Roma il negozio adatto dove comprare gli ultimi ritrovati e poi andarli a provare nel parchetto sotto casa. Ed è un’abitudine contro la quale ovviamente tutti noi genitori combattiamo accanitamente. Ma quando mio figlio mi ha chiesto, alla fine dello scorso anno, di passare insieme il Capodanno a Napoli per poter osservare dal vivo l’università dei botti, mi è parso un modo utile per avvicinarlo allo stile di vita della mia città senza fargli rischiare un’ustione di primo grado.
Cosi, grazie all’ospitalità di un amico con terrazza, e pur dopo un effimero tentativo del sindaco di rovinarmi la serata con un’ordinanza che vietava i fuochi, perfettamente ignorata dalla cittadinanza tutta, lui si è goduto lo spettacolo ed è diventato a pieno titolo un fan di Napoli.
Più complesso, ed eticamente carico di interrogativi, il processo di avvicinamento a Napoli della sorella. Giunta all’adolescenza, o quasi, ha infatti sviluppato un interesse spiccato per il dialetto partenopeo. Ha cominciato a chiedermi di parlarle in napoletano, di tradurle delle espressioni, e in generale trova «fico», «cool», «alla moda», il nostro vernacolo. Dapprima non ho compreso l’origine di questa preferenza linguistica, ma vi ho inconsciamente scorto una valenza letteraria che mi lusingava. Poi, un po’ alla volta, ho capito che il tutto nasceva dalla presa formidabile che sui ragazzi, anche molto giovani, ha l’immaginario collettivo della vita di strada napoletana. Una serie di cantanti, rapper ma anche no, come Geolier, LIBERATO (si scrive tutto in maiuscolo), Nicola Siciliano, Gelo, Luchè, e tanti altri ancora che non ricordo, sono oggi la colonna sonora del suo tempo libero. E cantano tutti in napoletano storia di «guagliuncelle napulitane», di amoretti adolescenziali, di prove di coraggio, di onore e solidarietà amicali.
In questo quadro di riferimento, è arrivata la serie tv «Mare fuori», trasmessa su Netflix. Per chi ancora non lo sapesse, perché magari non ha teen ager in casa, è la storia di un gruppo di ragazzi finiti per varie ragioni nel carcere minorile (pardon, nell’Istituto penale minorile) di Nisida. Perché è proprio la sub-cultura dei ragazzi di strada napoletani che rappresenta e ispira al massimo grado quel sistema di valori, quel coacervo di passioni, che la nuova musica napoletana interpreta. Non a caso, la canzone al momento più gettonata è proprio «‘O Mar For», di Stefano Lentini, colonna sonora della serie: «So’ crisciut miezza a vie, o sacc chello che m’aspett… miezz a vie è meglio a ten e fierr o a vennr e ros…».
Non posso dire di essere rimasto entusiasta di questo modo così originale di avvicinarsi a Napoli e alla sua realtà. A noi non piace che la nostra città sia conosciuta per la sua malavita. E non piace affatto il rischio serio di banalizzazione del male che prodotti cinematografici o televisivi apologetici contengono. È però innegabile che questo mondo non è solo un’espressione criminale, ma possiede anche un suo immaginario che attrae i giovani. Purtroppo, se l’attrazione si trasforma in azione, come accade spesso a Napoli. Malgrado tutto, se invece, come nel caso del gruppetto di ragazze romane di cui sto parlando, ci si limita a canticchiare canzoni e a seguire trame televisive. O a chiedere al genitore, come ha fatto mia figlia, di riportarla presto a Napoli, «ma a vedere i vicoli, non i musei».
D’altra parte, se così non fosse, non si spiegherebbe il successo planetario di libri e film come Gomorra, di una certa musica neomelodica e non, e perfino di uno stile di arredamento tutto ori, stucchi e divani fatti a forma di trono, che ogni tanto affiora nelle immagini di un tg girate nella casa di un boss sequestrata.
È un male, evidentemente, che Napoli sia conosciuta anche per questo. Ma dobbiamo sapere che è così. E che questo immaginario ha una sua efficacia che travalica l’aspetto delinquenziale. Come sto sperimentando nel mio caso, può essere perfino uno strumento per spiegare meglio Napoli a un figlio.