Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Una contro-parabola dell’esistenza dalla morte alla vita
Un contemporaneo eterno, che scompagina convenzioni antiche per entrare in uno spazio-tempo nuovo. Ce lo ha fatto sentire Romeo Castellucci con la sua creazione per corpo e parola in dialogo con il Requiem di Mozart, che ha debuttato martedì scorso al San Carlo.
Un capolavoro di Amadè, nato per essere cantato e suonato. Perché teatralizzarlo? Perché riempirlo di parole, danze, scenografie, mugugnano i puristi? Proprio perché è meraviglioso non ha bisogno di censure creative, ha una freschezza che si misura con il tempo e il pubblico che gli è dato in sorte.
Che Castellucci fosse un artista geniale lo sappiamo non da oggi ma in questo lavoro originale si conferma un fuoriclasse nel sapiente uso di un linguaggio che è capace di fondere le arti, portandoti in un luogo altro, appunto. E lì che la tradizione si trasforma in corpo che danza, prega, si denuda, diventa suono e parla alle sofferenze del mondo mostrando una via di fuga dalla crudele umanità di ogni tempo. Una performance artistica contemporanea nel significato più radicale di questa espressione, di quelle che i teatri (soprattutto quelli che vivono di finanziamenti pubblici) dovrebbero fare a gara ad aggiudicarsi, affidandola ad autori visionari e disposti a rischiare, senza farsi tentare da soluzioni di alto e sicuro artigianato.
Certo questo impone di puntare su un pubblico curioso e aperto a linguaggi nuovi, ma anche che chi guida le istituzioni non si lasci viziare dalle purtroppo sempre più frequenti deleghe ai soliti noti, quegli agenti che procacciano spettacoli di giro (travestiti da prime nazionali), non pensati per il luogo in cui approdano e che nulla lasciano sul territorio in termini di valore aggiunto. È il motivo per cui, sempre più spesso, vediamo grandi kermesse in breve tempo ridotte ad una tiepida cartolina della gloria passata. Perché questo è il brutto e il bello del mondo dello spettacolo: il pubblico è una comunità disinteressata al potere. Vuole quel brivido eccezionale che solo la vera arte può generare. E siccome è libero, non fa sconti.
È necessaria l’irriverenza per raggiungere le verità schermate, nascoste dentro involucri di perbenismo e dietro cortine di consuetudini anestetizzanti. Questa è l’ipotesi, il grimaldello narrativo di Romeo Castellucci, che ha proposto sul palco del Teatro San Carlo il suo inquietante, sconvolgente, visionario, dissacrante «Requiem». Sul podio, a condurre i solisti Giulia Semenzato, Sara Mingardo, Julian Prégardien, Nahuel Di Pierro e la voce bianca César Badault del Münchner Knabenchor, l’Ensemble Pygmalion e l’Orchestra del San Carlo, è salito un vivido Raphaël Pichon che ha staccato tempi serrati e con pochi respiri, alle pagine mozartiane. Pagine che tuttavia non hanno smarrito nitidezza architettonica, giovandosi dell’Orchestra del Massimo napoletano ben disposta ad assecondare le opzioni stilistiche del direttore. La narrazione propone una contro-parabola esistenziale dalla morte alla nascita, costellata di estinzioni di specie animali e vegetali, di monumenti e di edifici, tra cui lo stesso Teatro San Carlo, di popoli, di religioni, di sentimenti, «del te e me». I movimenti scenici, in alcuni momenti graffianti, sono animati, nella drammaturgia di Piersandra Di Matteo, attraverso la coreografia di Evelin Facchini per il Balletto del Massimo napoletano diretto da Clotilde Vayer, in cui si è inserito armoniosamente lo stesso Ensemble Pygmalion. «La musica è un mondo quasi inesplorato sul piano registico e può corrispondere all’idea di arte totale che mi interessa – ha raccontato Castellucci - e l’opera per essere viva deve bruciare, è questo il compito degli artisti». E il compito è svolto con geniale diligenza, con immagini che si stampano nelle sensibilità dello spettatore in una costante contrapposizione di metafore di morte e rinascita, in una dimensione laica che rifugge la resurrezione di un Cristianesimo, non incidentalmente nel novero delle religioni estinte e forse per questo in prospettiva anch’esso di rinascita. Castellucci e Piersandra Di Matteo pronunciano una sentenza di condanna a carico di «necropolitiche» che intendono legittimare, non in dose uniforme tra le classi, la necessità di esporsi al rischio di morte in ossequio a un ordine sociale consumistico, simboleggiato da una vettura assunta quale strumento di morte. E Castellucci dispone un possente festoso arsenale a difesa della ciclicità naturale della vita, fin dalla cacciata dall’Eden, ricordata reiteratamente dalla presenza del pomo. Lo spettacolo di arte totale costruito sulla musica dell’estremo capolavoro di Mozart ed altre pagine interpolate per il Festival di Aix en Provence è dal 16 maggio al San Carlo. Il quintetto di solisti ha le punte di eccellenza nel soprano Giulia Semenzato e nel basso Nahuel Di Pierro, ma il contralto Sara Mingardo e il tenore Julian Prégardien si confermano stilisticamente impeccabili, così come la voce bianca César Badault del Münchner Knabenchor, solo a tratti affaticata. Oltre 15 minuti di applausi da un pubblico che ha occupato ogni ordine di posto.