Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Borgo Orefici, un modello di resistenza
Èciò che resta del Ventre di Napoli. C’è pure una via, corta in verità, intitolata a Giuseppe Marotta, l’eterno innamorato dei teatrini di strada, il cantore dell’Oro di Napoli.
Una scelta azzeccata, seppure non all’altezza per imponenza del genio narrativo. Non si sa, però, se sia stata una scelta meditata o solo casuale. Se si socchiudono gli occhi e si ignorano le auto e gli scooter parcheggiati dovunque si può davvero credere che da qualche portoncino e da una bottega spunti una procace e invitante donna mutuata da una tela di Vincenzo Migliaro, ma più spesso ad attraversare lo sguardo è qualche studentessa o qualche studente fuori sede, perché, la vicinanza dell’Università Federico II (il lato orientale del Borgo è chiuso a ovest proprio dal Dipartimento di Lettere a via Porta di Massa) e la distanza ridotta dalla stazione di Napoli Centrale e ora della fermata Duomo della Linea 1 del metrò, tutto questo ha cambiato il volto di queste strettole e piazzette, facendo anche lievitare il valori immobiliari.
La vitalità, comunque, non ha abbandonato questa zona di Napoli, a differenza di rua Catalana o dello stesso Carmine, due facce tristi della città bassa. Il Borgo Orefici non è Tiffany, ma puoi farci colazione lo stesso. In certe ore è tutto un viavai di ragazzi del bar che portano caffè e cornetti da un negozio all’altro, da un laboratorio all’altro, da un tavolino all’altro, spuntato laddove le antiche mura concedono di allungare e allargare la vista. Perché di rado le strade concedono spazi come nell’omonima piazzetta Orefici, dove s’innalza l’imponente Crocifisso ligneo che necessita di un urgente restauro, o a piazza Carlo Troya, un tempo Loggia di Genova per la presenza dei mercanti liguri, con ciò che resta (solo la vasca triangolare) della fontana della Pietra del Pesce: fino al secondo dopoguerra manteneva ancora le sculture di pesci ed arpie, poi è stata vandalizzata e ora non sprizza acqua e ospita invece lattine e bottiglie di birra, l’immancabile zella urbana sfusa.
Nel Borgo resiste, non si arrende, ovviamente, anche il commercio e la lavorazione dell’oro e dell’argento che non ha mai abbandonato e ha sempre caratterizzato questo dedalo di Napoli fin dall’età angioina, XIV secolo, settecento anni fa. La regina Giovanna d’Angiò vi stabilì la corporazione degli orafi che crebbe attorno al nucleo specializzato venuto dalla Francia. Qui sono stati realizzati i gioielli più preziosi del Tesoro di San Gennaro a cominciare dal busto-reliquiario che conserva le ossa del cranio del primo patrono di Napoli e qui dalla bottega di Matteo Treglia (ricordato con una targa marmorea) uscì la spettacolare mitra decorata da migliaia di pietre preziose. L’oro di Napoli è qui, in poche parole. Ma anche l’argento e quanto di prezioso si acquista per regalare a matrimoni, battesimi e ricorrenze varie. I napoletani vengono al Borgo da sempre, dal tempo dei re, dei viceré, dei Borbone, della Belle Epoque. Tappa obbligata del napoletano verace, quando si vuole andare sul sicuro e magari ci può scappare l’affare. Non è più tempo di mitre e reliquiari, piuttosto di anelli, bracciali, parure di vari prezzi e varia eleganza, coppe, medaglie, trofei o ciondoli scaramantici. Si va in cerca di bellezza e nobiltà. Perché tutti, quando devono, possono dare uno schiaffo alla miseria. Eppure su tutto il Borgo aleggia un’aura di affanno. Si resiste, mentre i tempi cambiano. Però sono passati sette secoli e ne possono passare altre sette ancora e le vetrine continueranno a scintillare.