Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Policrisi» profonda della scuola
Provando a seguire un minimo di ordine, la scuola è in crisi: 1) di valori, non contribuendo adeguatamente a formare i cittadini del futuro, liberi nelle idee e dotati di capacità critica e argomentativa; 2) di contenuti, a margine della modernità e sempre più al servizio di una certa inutile retorica, con programmi disorientanti e presunti standard da rincorrere; 3) di organizzazione, condizionata da investimenti sbagliati e da norme spezzattino, non in grado di aiutare a valutare, riflettere, includere, stimolare. Non sappiamo dove porterà la riforma del sistema scolastico giapponese, solo per comprendere meglio alcune questioni di cui si dovrebbe dibattere, ma senza dubbio una programmazione didattica senza ridondanze, che punti a ridurre gli insegnamenti meno significativi, e un intelligente ripensamento dello studio, che realizzi un corretto equilibrio tra impegni domestici e attività d’aula, sembrano dei non trascurabili punti di partenza. Come da non trascurare, con qualche necessario correttivo, potrebbe essere la scelta che quella riforma presenta in tema di argomenti o oggetti della formazione: i programmi dovrebbero basarsi su cinque materie o aree di attività ritenute fondamentali, direi indispensabili per preparare alla cittadinanza. Al di là delle specifiche aree proposte, dalla aritmetica alla lettura, dalle lingue alla informatica, ciò che davvero potrebbe essere decisivo per noi è poter trasformare la scuola italiana da luogo di aridi contenuti a luogo di attività, esperienze, confronto: non è tollerabile che uno studente abbia difficoltà ad esprimersi correttamente nella propria lingua, che trovi impossibile comprendere l’insieme di due o più proposizioni, o che si impantani davanti a una formula matematica di bassa complessità; come risulta intollerabile che fatichi nel discernimento valoriale o nell’appropriarsi di una consapevolezza politica, giusto per intendersi. Dobbiamo intervenire sulle modalità di trasmissione del sapere, rivedere e rielaborare il concetto di eccellenza, riflettere sulla figura del docente (maestro e guida) e dello studente (allievo e attore), il primo non più centrale nel suo ruolo, il secondo non più protagonista del suo destino. Il problema, dunque, non è e non può essere come rilanciare il «Made in Italy», piuttosto ricucire le ferite per un fondamentale contributo nella costruzione della cittadinanza. Insegnare a pagare le tasse, a occuparsi dell’ecosistema, a difendere la salute, a partecipare alla vita di comunità, a riconoscere l’altro. Di ciò si gioverebbe l’intero Paese, a partire dal resto del sistema della formazione: le università, che trovano alimento e sono influenzate anche dalla qualità della istruzione scolastica, non sembrano volare, se si tengono fuori dal ragionamento i tanti finanziamenti e le numerose opportunità di progetti e cose simili; non servono solo i denari e le idee, ma giovani che abbiano volontà e visione. Davanti una formidabile sfida democratica, dettata da un bisogno urgente di persone, non da ammaestrare ma da curare, dotate di capacità di pensiero, in grado di interrogarsi, di porre delle domande e di elaborare soluzioni, per affrontare e superare quel sentimento di ineluttabilità che il mercato, prima, e la politica, poi, hanno lasciato diffondere. Del resto, la modernità non è proprio il sapersi disporre verso l’ineluttabile? Dalla scuola tutto può riavere inizio.