Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Attraversare la vita O viverla alla cieca
Non le legge mai nessuno, le lapidi per strada. Alla lunga scivolano nel paesaggio invisibile, non ci si accorge nemmeno più della loro esistenza. Oltretutto diventano sempre meno leggibili, è inevitabile che le iscrizioni man mano sbiadiscano. Tuttavia, le autorità sono convinte che una lastra di marmo murata in un edificio possa resistere al tempo. In effetti, quella che commemora l’ultima abitazione di Leopardi in questo mondo resiste. Ha resistito ai bombardamenti a tappeto, ai crolli dell’ultima guerra, quegli immani spostamenti d’aria. Ha resistito ai terremoti, alla potenza selvaggia sprigionata dalle viscere della città. Dato ancora più significativo: quella lapide permane anche nella mia memoria. Come uno spartiacque, un punto fermo non facile da aggirare. Sì, alcuni ricordi sono più indistruttibili del marmo. Tu pensi di averli accantonati, in realtà li hai solo velati con uno strato di polvere. Volendo lo posso soffiare via, difficilmente quello che riemerge mi piacerà. Ma si deve fare, a quanto sembra. Un eterno presente, la sensazione è quella.
La lapide intestata a Leopardi, dicevo. Sovrasta ancora la confluenza fra la discesa di Materdei, la sommità di via Santa Teresa, la ripida pendenza che porta alla Stella. Sì, decisamente Napoli è una città di dislivelli (in questo la mia memoria le somiglia: voragini, una lenta china, poi degli improvvisi, rivelatori vuoti d’aria che mettono a repentaglio il tuo equilibrio).
Quella lapide, dicevo, che sembrava messa lì per sorvegliare il passaggio delle generazioni. Come un metro di misura della nostra pochezza o qualcosa del genere, mi viene in mente questo. Mi vengono in mente anche i poli di attrazione, in quel rione che connetteva la Città vecchia e bassa con Capodimonte, tramite il ponte della Sanità. Un bar torrefazione; il chiosco dell’edicola, le ultime edizioni dei giornali appese con la molletta ad una corda; il viavai dalla tabaccheria. E poi, certo, l’unico semaforo che presidiava un attraversamento pedonale: la mia salvezza.
Ma andiamo con ordine. Sì, l’ordine contro il caos, il disordine della vita, l’ordine della scrittura soprattutto. Voglio appunto chiarire che io frequentavo quell’incrocio da alunno di una vicina scuola media, dov’ero atterrato da fuori zona come un alieno. Gli altri ragazzini spesso erano pluri-ripetenti dall’aria vissuta, ilare e vissuta. Avevano uno strano rictus, una specie di sogghigno, specie quando venivano posseduti dalla violenza. Violenza per me significava ogni manifestazione incontrollata degli impulsi. In una parola: disordine. Loro erano violenti sempre. Nel calcio giocato e in quello tifato. Nell’autoerotismo sotto il banco o nei cessi: compulsivo, cieco, incapace di accettare rinvii. Anche le vanterie fra ragazzi erano smodate, così come quell’abitudine di misurarsi con ogni pretesto a cazzotti. Come i cervi con le cornate: per definire una gerarchia. Io, per di più, mi sapevo esprimere solo in una lingua straniera come l’italiano... Nel bar-torrefazione i miei compagni non mettevano piede, consumare caffè rappresentava un rito da adulti. Adulti, ai miei occhi, sempre sul limite di un alterco in potenza sanguinoso ma che, per qualche fortunata casualità, non degenerava mai. Il motivo del contendere: la squadra di calcio e la sua formazione; più difficilmente la faziosità politica. La tabaccheria, per i miei compagni, era invece un luogo di culto. Oltre il bancone, come in un tabernacolo, troneggiava il busto della titolare.
Lei – come costume di scena - indossava un pulloverino aderentissimo alle sue poppe imperiali, da cui avremmo voluto venire schiaffeggiati. Da ogni visita in tabaccheria, più o meno pretestuosa, i miei compagni di classe prendevano spunto per la sequela di masturbazioni quotidiane. Del resto la stampa pornografica circolava clandestina, i film spinti erano preclusi ai minorenni, ci si arrangiava con la vita sognata. I miei amici, però, avevano già delle idee abbastanza chiare sui misteri dell’anatomia femminile. Alla fine, diversamente da me, loro non vivevano nei libri, ma per strada. Mentre io, undicenne, sapevo a stento passare da un marciapiede all’altro, nel tragitto da casa a scuola e ritorno. Il punto critico coincideva con quell’attraversamento regolato dal semaforo, sorvegliato come una sfinge dalla lapide di Leopardi. Lì, mi bastava poggiare il piede sulla sede stradale per venire attanagliato da un groppo di angoscia. Come se avessi dovuto guadare un fiume in piena, in grado di travolgermi nella sua corrente da un momento all’altro. La corrente, il flusso delle auto. Mi sono occorsi anni e un’ossessiva auto-analisi, per circoscrivere il motivo di quella fobia. Eppure la causa si trovava a un tiro di fucile e la lapide, nella sua onniscienza, sono certo fosse al corrente di tutto.
Il mio impedimento - come ogni timore parossistico - risaliva ad un trauma, localizzabile a poca distanza nel tempo come nello spazio. Lo shock risaliva alla morte di un mio zio materno, un uomo indaffarato dalle gambe e la falcata lunghe. L’incidente era avvenuto, pochi anni prima, duecento metri più a valle: a piazza Dante. La dinamica era stata beffarda e atroce. Mio zio stava attraversando la carreggiata, probabilmente era sopra pensiero. Un’auto lo aveva urtato ad una velocità ridotta, di per sé non letale. Purtroppo lui era stato fatto rotolare proprio sotto gli pneumatici di un pullman che sopraggiungeva e che gli aveva schiacciato la gabbia toracica, con tutto il suo peso. Rammento il messo di sventura che aveva portato la notizia a casa. Mia madre si era impietrita di colpo crollando a sedere, fu spaventoso. Ero abituato agli sfoghi da prefiche, nel quartiere. Non avevo mai visto, invece, qualcuno irrigidirsi in una specie di catalessi, di morte in vita.
Com’era inevitabile, mi accorgo, negli anni a seguire mamma avrebbe trasmesso a me il suo shock, una madre sa sempre come fare. Così fu lei ad alimentare lo spaventoso babau dell’attraversamento, dell’incidente stradale che incombe sull’esistenza di ogni pedone, in primis del figlio. Ecco la malsana verità, sotto la lapide della memoria. La verità murata dentro di noi: quella che ottura un buco, una lesione nella pietra viva. Svellere certe lapidi è rischioso, non si sa mai: dietro potrebbe brulicare un verminaio. L’alternativa? Lasciare che la nostra vita proceda alla cieca e che noi si passi invano. Lasciando tutto così, informe. Una soluzione: scrivine.
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