Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Daniela Carelli, una vita (e un mondo) in un libro
Non c’è dubbio che la prima chiarificazione da esplicitare su «E Leda inventò il mondo» di Daniela Carelli sia questa: attenzione! Non si tratta di un libro autobiografico! Infatti è la stessa autrice che nel suo saluto conclusivo ai lettori li avverte: «Badate, le vicende che la protagonista narra in prima persona non rispecchiano mica la mia vita, no, son frutto di fantasia!». E innegabilmente è così: in «E Leda inventò il mondo» c’è un solo elemento che accomuna la Carelli alla protagonista, e cioè che, come la protagonista, anche Daniela salvò dall’abbandono una cagnolina che poi per anni le rimase accanto da fida compagna.
Fatta questa premessa, c’è però da aggiunger subito che al tempo stesso, anche se contraddittoriamente, un altra constatazione si impone. E cioè: che poche volte accade come in «E Leda inventò il mondo» che i lettori si ritrovino di fronte in ogni pagina così incisivamente inconfondibile la personalità dell’autore o dell’autrice. Nel senso che la vulcanica vitalità di Daniela (la quale, oltre che scrittrice, è cantante, «vocal coach», disegnatrice e compositrice) è sempre esplosivamente avvertibile nell’adesione fisica alla realtà che descrive - la realtà coi suoi colori, le sue luci e le sue ombre, la sua durezza e la sua morbidezza, e l’euforia del possesso, e il malessere della perdita - e nell’incontenibile amore per la vita da cui questo magma è intriso e impregnato. Sì, pochi libri parlano tanto ai nostri sensi oltre che alla nostra fantasia. Anzi: parlano tanto alla nostra fantasia, però sempre attraverso i sensi.
Potreste chiedere: ma in questo magma gravido d’amore e affetto anche il dolore ha un suo spazio e una sua legittimità? E come no! Perché, se non abbiamo sperimentato il dolore, come possiamo riconoscer la felicità? Insomma, ecco: si tratta di un libro che a leggerlo è come se avvertissimo una sorta di vertigine da cui al tempo stesso temiamo e desideriamo venir risucchiati. Una vertigine che scaturisce dal ritmo di quell’imprevedibile avventura che è la vita e trae la sua carica anche dal continuo alternarsi di epoche e luoghi. Pensate, l’alternarsi delle epoche: l’infanzia nel contesto caldo e protettivo della famiglia, l’adolescenza con le sue contraddizioni, perché alla paura d’amare s’accompagna il bisogno di amore e alla smania di autonomia si oppone la difficoltà di divenir se stessi, e poi, evviva!, la gioventù, la gioventù e la raggiunta libertà di girare il mondo come «cantante di strada», lasciandosi ubriacare dalla varietà degli incontri. A cui si affianca l’alternarsi dei luoghi: Procida, e il suo mare azzurro e le sue spiagge d’oro, Napoli, coi gabbiani in volo e l’improvvido incontro sulle scoscese scalinatelle del Petraio, e poi Lisbona, Marsiglia, Strasburgo. Ma, a stordirci e incantarci, c’è pure il suono dell’ukulele che accompagna le canzoni di Leda. È un suono, quello dell’ukulele, che ci carezza, ci coccola, ci intriga, e mette voglia di piangere e ridere al tempo stesso. Perché? Ma perché, come scriveva Kundera, davvero «insostenibile» è la «leggerezza» della vita!