Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Giovedì, zuppa di cozze
La tavola della sera del Giovedì santo ricorda l’Ultima cena di Gesù consumata prima della Passione. Nella tradizione napoletana il piatto che non può mancare è la zuppa di cozze. Un piatto povero, semplice, in linea con i dettami della Chiesa che durante la Settimana santa chiede ai fedeli in segno di penitenza e riconoscimento della sofferenza di Cristo, cibi non indulgenti a tavola. Il piatto entra nella tradizione popolare a fine ‘700, per via di una ricetta di Ferdinando I re Borbone di Napoli e Sicilia, creata per non contraddire i dogmi penitenziali della Settimana santa; questa almeno è la narrazione più diffusa.
«Re nasone», com’era soprannominato Ferdinando I, pare fosse ghiotto di tutto, un pozzo senza fondo, in particolare di frutti di mare. Li pescava lui stesso, nel lago Patria
o nel Fusaro dove trovava i mitili più pregiati, oppure a Marechiaro quando si accontentava di cozze comuni. Riprese anche un’usanza dell’epoca romana sulla coltivazione di cozze pregiate nelle acque di Bacoli. Un re dalle abitudini culinarie votate all’eccesso; la sua passione per mitili e molluschi pare gli causassero anche continue indigestioni e coliche. Abitudini alimentari che non potevano ricevere se non il biasimo da parte degli uomini di Chiesa, soprattutto durante la Settimana santa. Tant’è che un frate domenicano, Gregorio Maria Rocco, molto stimato a corte, chiede al re di astenersi durante questo periodo dal mangiare piatti così abbondanti e di limitare i peccati gola. Ma il sovrano, che di pesce e frutti di mare era ghiottissimo, escogitò il sistema per non rinunciarvi, senza trasgredire le regole del buon cristiano. Fece preparare dal cuoco di corte una semplice zuppa di cozze colorata da qualche pomodorino del piennolo; un piatto umile, in linea con i principi penitenziali della Settimana santa.
Il piatto venne ben presto adottato dal popolo, che sostituì le cozze pregiate del re con cozze meno pregiate o con i «maruzzielli», le lumache di mare. Ma c’è anche un’altra versione sull’origine di questa tradizione, dove i confini tra il sacro e il profano, come spesso accade a Napoli, sono ancora una volta sfumati. Questa seconda versione vorrebbe che il re mangiasse spesso un piatto a base di cozze, che chiamò «cozzeche dint’a cannola», le cozze nella culla: veniva preso un pomodoro San Marzano e diviso a metà creando una gondola; veniva poi farcito di cozze, polpo, lumache di mare, seppie, seppioline nane e tante altre varietà di pesce. Ma il frate domenicano gli spiegò che quel piatto alimentava il divario tra ricchi e poveri, bisognava creare qualcosa che fosse alla portata di tutti. Si dispose perciò che gli ostricari di Santa Lucia raccogliessero le migliori cozze per creare un piatto destinato al Giovedì santo del popolo.
Insomma, quale che sia la versione corretta una cosa è certa, la tradizione da allora è rimasta immutata, ma la ricetta è cambiata moltissimo rispetto al ‘700. Oggi la zuppa di cozze non può dirsi un piatto povero. La base restano le cozze, ma col tempo sono stati aggiunti altri ingredienti: gamberi, qualche tentacolo di polpo, seppie, qualcuno ci aggiunge anche uno scampo, e molti usano l’acqua di cottura del polpo, il celebre «bror ‘e purpo».
Oggi assomiglia più ad una zuppa di pesce, ma le cozze continuano a rappresentare la parte più sostanziosa del piatto, che la sera del Giovedì santo non può mancare sulla tavola dei napoletani.