Corriere del Mezzogiorno (Campania)
QUEL FESTIVAL DELL’IPOCRISIA
Echiunque abbia un figlio sa che non esiste condanna peggiore di essere inchiodati a osservare il suo dolore senza poter far nulla. Eppure in Campania sembra che il problema non esista. Tranne quando scocca la data delle celebrazioni e si fa a gara a mettersi in mostra. I centri pubblici sono insufficienti e del tutto inadeguati a gestire la complessità di una sindrome che varia da paziente a paziente e richiederebbe un’assistenza personalizzata, possibilmente fondata sul rapporto uno a uno tra operatore e utente. Manca l’informazione, che è fondamentale quando precipiti all’improvviso in questo baratro. Manca il sostegno psicologico ai genitori, che da un momento all’altro si ritrovano ad affrontare l’indicibile e capiscono ben presto che nessuno li aiuterà. E ovviamente mancano i luoghi in grado di migliorare davvero (e non soltanto con qualche seduta di psicomotricità o di logopedia) la qualità di vita di questi bambini, scaraventati subito nei bassifondi della cittadinanza, dove scompaiono perfino i diritti più elementari, a cominciare da quello all’istruzione. L’unico rimedio è pagare. Pagare di tasca propria. Talvolta anche mille euro al mese e forse più. Una cifra che pochi, pochissimi, possono permettersi. Agli altri non resta che sbattere la testa contro il muro e rassegnarsi all’inferno. Senza contare, poi, l’incubo peggiore che oggi, con linguaggio gentile, chiamiamo «il dopo di noi», ossia cosa sarà di questi ragazzi allorché i genitori moriranno. Un’oncia di sollievo era scaturita dalla legge che Matteo Renzi aveva voluto durante la sua permanenza a Palazzo Chigi e dalla passione che l’assessore comunale al Welfare, Luca Trapanese, ha speso fin dall’inizio per spremere il meglio dalla normativa, sebbene i fondi appartengano a Palazzo Santa Lucia e non al suo ufficio. Ma, ovviamente, ci ha pensato la burocrazia a ridimensionare gli effetti del provvedimento. Sapete che ogni anno le famiglie sono costrette a inoltrare un’apposita domanda per avere accesso ai fondi? Come se non fossimo dinanzi a una patologia genetica, dunque immutabile, ma a un malanno di stagione che può cambiare il suo decorso nel giro di qualche mese. Inoltre, per oscena beffa, quei soldi che ti spettano di diritto devi pure elemosinarli, visto che passano mesi tra l’approvazione della richiesta e l’erogazione del denaro. Volete un’idea degli scempi che la strafottenza delle istituzioni e la dabbenaggine della burocrazia possono commettere ai danni di chi soffre irrimediabilmente? Eccone uno: gli autistici che rimangono senza famiglia possono essere ricoverati (ma sarebbe più giusto dire «abbandonati») soltanto nelle Rsa. Il motivo? Perché quelle sono strutture sanitarie e quindi finanziate dalla Regione. Regione che, al contrario, non concede un euro ai numerosi esperimenti (privati) di case accoglienza sorti nel nostro territorio grazie alla buona volontà delle associazioni e degli operatori. La spiegazione è agghiacciante nella sua banalità: quei centri, nati nella completa assenza del pubblico, non rientrano in una casella burocratica predefinita, essendo appunto sperimentali. Non sono e non vogliono essere, grazie al cielo, luoghi di esclusiva pertinenza sanitaria, bensì mirano a realizzare una forma di cohousing protetta, capace di garantire una qualità di vita sostenibile, tramite lo sviluppo delle autonomie, a chi è afflitto da questa patologia. Parliamo dell’unico futuro decente che si può regalare a un figlio autistico, eppure chi dirige la sanità in Campania preferisce nascondersi dietro le scartoffie invece di risolvere il problema. D’altronde, si sa, i disabili non votano e le loro famiglie hanno da tempo perso ogni fiducia nelle istituzioni. Quindi è meglio raccogliere altrove il consenso elettorale, quello che si raccatta offrendo fritture di pesce o sbraitando a destra e a manca, distribuendo prebende e incarichi, casomai proprio negli ospedali e nei centri di riabilitazione. Continuate così, fate pure. Ma risparmiateci almeno il volgare sfoggio di solidarietà una volta all’anno.