Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Lascio Facebook, nessuno ci crede»
Non ci hanno creduto. Eppure ero stato netto: fine delle trasmissioni dopo più di 15 anni di lavoro non retribuito per Mark Zuckerberg. Ero stufo di Fb e l’avevo fatto capire da tempo e da tempo centellinavo la mia presenza, postavo poco, qualche citazione quotidiana da testi poco noti, le copertine dei libri che leggevo (a mia futura memoria), i “preziosi consigli” di un’enigmatica zia Maria, foto di Napoli o di quadri famosi, e qualche post di piccoli ricordi senza importanza. Può sembrare tanto, ma ero parsimonioso rispetto a chi mette la propria vita in vetrina, senza scuorno.
Da anni, dopo gli iniziali entusiasmi, avevo cambiato registro. Basta con le discussioni e i dibattiti, basta con il tifo calcistico, con i dolori e gli splendori di Napoli, del suo folklore sguaiato spacciato per orgoglio identitario, basta con le superflue analisi politiche argomentate come tesi da bar (io cercavo di ragionare, in tanti la buttavano in caciara), basta con le inconcludenti e disinformate analisi geopolitiche, basta con l’elefante del giorno, piccola baionetta per la distrazione di massa, basta con l’insopportabile rumore di fondo che monopolizza le giornate di milioni di persone, me compreso. Poco scrivevo e, a poco a poco, meno leggevo, eppure tutto era fastidio, un tuzzuliare continuo: ehi, qui ci sto io, me la sto godendo oppure sono angosciato, compatitemi, paturnie e permalosità rissose, pornografia di sentimenti. Vabbè, signori miei, tutto quello che vi pare, ma scenniteme a cuollo. Tregua, armistizio, pace. Era ormai una tortura mentale alla quale mi abbandonavo, dannandomi per non saper far calare il sipario su un molesto e modesto teatrino. Una droga di parole e immagini dalla quale dovevo disintossicarmi.
Non sono in grado di fare un’analisi sociologica performante sui social. Non è il mio mestiere. Altri, bravissimi, la fanno e tanto di cappello. Io parlo della mia bolla, dei circa 5000 amici (mai parola è stata così stuprata da Facebook), in gran parte perfetti sconosciuti. Parlo della mia gabbia, nella quale in 15 anni ho fatto continue e pesanti potature, ma a volte, troppo spesso, ritornano o se ne aggiungono di nuovi. Sono sempre stato di bocca buona, sui social ho accettato quasi tutte le richieste di amicizia, forse solo per rispetto e curiosità verso gli altri e pure perché quell’insignificante ruolo pubblico che mi viene dalla mia professione me lo imponeva per non sembrare altezzoso. Scartavo le subdole (ma riconoscibili) richieste di escort (ambisesso) e di usurai che 30 secondi dopo la tua conferma ti scrivono in privato offrendoti prestiti mirabolanti. Insomma parlo della mia trappola privata costruita da un implacabile algoritmo. Comunque, negli anni ho letto molti post interessanti scritti da autentici esperti e ho conosciuto un paio di dozzine di persone straordinarie, qualcuna da contatto virtuale è diventata una presenza fisica. Ho ritrovato amici perduti. Di qualcuno ne avrei fatto a meno. La massa però era solo peso
inerte. Al limite, guardoni o collezionisti di amicizie posticce.
Così sulla mia home era un rimbalzo continuo di autopromozioni di chi s’impicca a un like, di narcisismo, di buongiorno e buonasera, di centinaia di scriventi e rarissimi scrittori, un ricettacolo di insulse recensioni di libri e di film spacciate per analisi sapienziali, una mitragliata di auguri virtuali per le feste comandate e quelle personali (onomastici e compleanni) per risparmiarsi una telefonata, un obitorio con morti famosi o sconosciuti (no, i necrologi no, non ce la faccio, tengo un’età e da un momento potrei essere io l’oggetto di questo cordoglio ipocrita) e poi polemiche su polemiche (tantissimi, negli ultimi 4 anni, autoproclamatisi esperti di virus, di Russia, di Gaza). Tutti blaterano, nessuno ascolta. La migliore definizione di questo marasma l’ho sentita da un acuto quindicenne: Fb è il posto dove i vecchi vanno a litigare. Ecco, non avrei saputo dire meglio. Aggiungerei solo che da tempo è un modo distorto per stare al mondo, di conoscere il mondo, di informarsi sul mondo. È tanto altro, lo so, è soprattutto una grande impresa commerciale dove tutto è gratis perché la
merce siamo noi. Certo, per chi ancora ci crede, può essere istruttivo restarci, vivere la contemporaneità per quanto fasulla sia. Ma per me era solo uno stillicidio di malesseri altrui (sono stato sfortunato nelle scelte), come se non bastassero i miei. Forse sbaglio io, ma questo sgangherato helzapoppin’ si era trasformato in tempo sottratto alla vita, che può essere più noiosa di questa solitudine troppo rumorosa, ma è vita di carne, di aria, di libri veri, di facce e non un libro di facce dove in troppi non mettono la faccia e nemmeno il nome.
Ero stanchino come Forrest Gump dopo anni di corsa, con una masnada di sconosciuti follower alle calcagna. Così sono scivolato su Instagram, dove sono registrato da tempo, dove tutto è meno chiassoso, dove ci si limita a un cuoricino rosso e a pochi secchi commenti, almeno così ho capito. Il mio account di Facebook non sarà cancellato, resta a testimonianza dei miei ultimi 15 anni, di quel poco di me che ho voluto rendere pubblico. Anche perché (ma chi mi seguiva non ci conti troppo), come cantava il Califfo, non escludo il ritorno. No, no: arrassusia, arrassusia.