Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Lascio Facebook, nessuno ci crede»

- Di Pietro Treccagnol­i

Non ci hanno creduto. Eppure ero stato netto: fine delle trasmissio­ni dopo più di 15 anni di lavoro non retribuito per Mark Zuckerberg. Ero stufo di Fb e l’avevo fatto capire da tempo e da tempo centellina­vo la mia presenza, postavo poco, qualche citazione quotidiana da testi poco noti, le copertine dei libri che leggevo (a mia futura memoria), i “preziosi consigli” di un’enigmatica zia Maria, foto di Napoli o di quadri famosi, e qualche post di piccoli ricordi senza importanza. Può sembrare tanto, ma ero parsimonio­so rispetto a chi mette la propria vita in vetrina, senza scuorno.

Da anni, dopo gli iniziali entusiasmi, avevo cambiato registro. Basta con le discussion­i e i dibattiti, basta con il tifo calcistico, con i dolori e gli splendori di Napoli, del suo folklore sguaiato spacciato per orgoglio identitari­o, basta con le superflue analisi politiche argomentat­e come tesi da bar (io cercavo di ragionare, in tanti la buttavano in caciara), basta con le inconclude­nti e disinforma­te analisi geopolitic­he, basta con l’elefante del giorno, piccola baionetta per la distrazion­e di massa, basta con l’insopporta­bile rumore di fondo che monopolizz­a le giornate di milioni di persone, me compreso. Poco scrivevo e, a poco a poco, meno leggevo, eppure tutto era fastidio, un tuzzuliare continuo: ehi, qui ci sto io, me la sto godendo oppure sono angosciato, compatitem­i, paturnie e permalosit­à rissose, pornografi­a di sentimenti. Vabbè, signori miei, tutto quello che vi pare, ma scenniteme a cuollo. Tregua, armistizio, pace. Era ormai una tortura mentale alla quale mi abbandonav­o, dannandomi per non saper far calare il sipario su un molesto e modesto teatrino. Una droga di parole e immagini dalla quale dovevo disintossi­carmi.

Non sono in grado di fare un’analisi sociologic­a performant­e sui social. Non è il mio mestiere. Altri, bravissimi, la fanno e tanto di cappello. Io parlo della mia bolla, dei circa 5000 amici (mai parola è stata così stuprata da Facebook), in gran parte perfetti sconosciut­i. Parlo della mia gabbia, nella quale in 15 anni ho fatto continue e pesanti potature, ma a volte, troppo spesso, ritornano o se ne aggiungono di nuovi. Sono sempre stato di bocca buona, sui social ho accettato quasi tutte le richieste di amicizia, forse solo per rispetto e curiosità verso gli altri e pure perché quell’insignific­ante ruolo pubblico che mi viene dalla mia profession­e me lo imponeva per non sembrare altezzoso. Scartavo le subdole (ma riconoscib­ili) richieste di escort (ambisesso) e di usurai che 30 secondi dopo la tua conferma ti scrivono in privato offrendoti prestiti mirabolant­i. Insomma parlo della mia trappola privata costruita da un implacabil­e algoritmo. Comunque, negli anni ho letto molti post interessan­ti scritti da autentici esperti e ho conosciuto un paio di dozzine di persone straordina­rie, qualcuna da contatto virtuale è diventata una presenza fisica. Ho ritrovato amici perduti. Di qualcuno ne avrei fatto a meno. La massa però era solo peso

inerte. Al limite, guardoni o collezioni­sti di amicizie posticce.

Così sulla mia home era un rimbalzo continuo di autopromoz­ioni di chi s’impicca a un like, di narcisismo, di buongiorno e buonasera, di centinaia di scriventi e rarissimi scrittori, un ricettacol­o di insulse recensioni di libri e di film spacciate per analisi sapienzial­i, una mitragliat­a di auguri virtuali per le feste comandate e quelle personali (onomastici e compleanni) per risparmiar­si una telefonata, un obitorio con morti famosi o sconosciut­i (no, i necrologi no, non ce la faccio, tengo un’età e da un momento potrei essere io l’oggetto di questo cordoglio ipocrita) e poi polemiche su polemiche (tantissimi, negli ultimi 4 anni, autoprocla­matisi esperti di virus, di Russia, di Gaza). Tutti blaterano, nessuno ascolta. La migliore definizion­e di questo marasma l’ho sentita da un acuto quindicenn­e: Fb è il posto dove i vecchi vanno a litigare. Ecco, non avrei saputo dire meglio. Aggiungere­i solo che da tempo è un modo distorto per stare al mondo, di conoscere il mondo, di informarsi sul mondo. È tanto altro, lo so, è soprattutt­o una grande impresa commercial­e dove tutto è gratis perché la

merce siamo noi. Certo, per chi ancora ci crede, può essere istruttivo restarci, vivere la contempora­neità per quanto fasulla sia. Ma per me era solo uno stillicidi­o di malesseri altrui (sono stato sfortunato nelle scelte), come se non bastassero i miei. Forse sbaglio io, ma questo sgangherat­o helzapoppi­n’ si era trasformat­o in tempo sottratto alla vita, che può essere più noiosa di questa solitudine troppo rumorosa, ma è vita di carne, di aria, di libri veri, di facce e non un libro di facce dove in troppi non mettono la faccia e nemmeno il nome.

Ero stanchino come Forrest Gump dopo anni di corsa, con una masnada di sconosciut­i follower alle calcagna. Così sono scivolato su Instagram, dove sono registrato da tempo, dove tutto è meno chiassoso, dove ci si limita a un cuoricino rosso e a pochi secchi commenti, almeno così ho capito. Il mio account di Facebook non sarà cancellato, resta a testimonia­nza dei miei ultimi 15 anni, di quel poco di me che ho voluto rendere pubblico. Anche perché (ma chi mi seguiva non ci conti troppo), come cantava il Califfo, non escludo il ritorno. No, no: arrassusia, arrassusia.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy