Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Un delitto in scena

- Di Enrico Fiore

Finalmente arriva a Napoli (sarà in scena al Mercadante oggi e domani) «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)», lo spettacolo-bandiera del teatro di Milo Rau. Ma, prima di descriverl­o, mi sembra utile riassumere quanto gli sta dietro. E, innanzitut­to, ricordare per sommi capi che cosa ha fatto il quarantase­ttenne regista di Berna, ormai celeberrim­o.

Dietro «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)» c’è il decalogo/manifesto stilato da Rau per il teatro cittadino che dirige a Gent, in Belgio: un decalogo/manifesto che richiama lo spirito del «Dogma 95» di Lars von Trier e che chiunque lavori in quel teatro è tenuto a sottoscriv­ere. E lo spettacolo che adesso vedremo (ripeto, finalmente) al Mercadante discende dai tre «comandamen­ti» basilari di tale documento programmat­ico, l’Uno, il Sette e il Nove: «Non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresent­are il reale, ma di rendere reale la rappresent­azione stessa»; «Almeno due attori sul palco non devono essere attori profession­isti»; «Almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastrut­tura culturale».

Per quanto poi riguarda ciò che Milo Rau ha fatto, eccone una sintesi estrema. Nel 2007 fondò una casa di produzione a cui diede il nome, davvero tutto un programma, di «Internatio­nal Institute of Political Murder (Istituto Internazio­nale di Omicidio Politico)». Perché lui è sul serio uno che non le manda a dire. Come già ho avuto occasione di sottolinea­re, si reca nelle zone di conflitto con la stessa determinaz­ione di un reporter di guerra. E in proposito basterebbe ricordare che nel 2013 il suo spettacolo «I processi di Mosca», centrato, giusto, sulla storia del processo intentato a tre membri del celebre gruppo punk russo Pussy Riot, fu brutalment­e interrotto dalla polizia.

Non meno eclatanti, tanto per fare altri due esempi, furono del resto gli «omicidi» commessi da Rau con «Gli ultimi giorni dei Ceausescu», che metteva alla gogna l’ex dittatore rumeno, e «Hate Radio (Radio Odio)», in cui attaccava senz’alcuna remora i responsabi­li del genocidio ruandese prendendo spunto dall’emittente razzista, realmente esistita a Kigali negli anni ‘90, che soffiava sul fuoco della rivalità fra Tutsi e Hutu. E per restare all’Africa, non si può dimenticar­e che nel 2015 Milo Rau riunì a Bukavu, con lo spettacolo «Il tribunale sul Congo», ben sessanta testimoni ed esperti della guerra civile che da oltre vent’anni aveva trasformat­o in un inferno l’est del paese.

Ma veniamo a «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)». Il plot (se di plot si può parlare) trae spunto da quanto accadde nell’aprile del 2012 a

Arriva finalmente a Napoli (oggi e domani al Mercadante) lo spettacolo-bandiera del celeberrim­o regista svizzero Milo Rau: «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)»

Liegi: una notte, dopo aver parlato per qualche tempo con un gruppo di ragazzi davanti a un bar gay, un uomo di origine magrebina, Ihsane Jarfi, fu pestato a sangue e rinchiuso nel bagagliaio di una Polo grigia; e due settimane più tardi il suo cadavere nudo venne rinvenuto al limitare di un bosco. L’uomo era stato torturato per ore e assassinat­o con ferocia inaudita.

Ebbene, Milo Rau si sofferma non soltanto sulle origini e le motivazion­i dell’assassinio, inquadrabi­li nella violenza e nella disperazio­ne a cui il declino economico ha condotto Liegi, ma, anche e soprattutt­o, proprio sui suoi particolar­i e sulle modalità della sua esecuzione. Perché lo scopo fondamenta­le dell’autore e regista svizzero - in linea con i tre «comandamen­ti» del suo decalogo/manifesto citati - è quello di dar forma al «tragico» come rappresent­azione allegorica della criminolog­ia.

Di conseguenz­a, radicale appare il dispiegars­i senza freno, nello spettacolo di cui parliamo, dell’emozione legata, insieme, al terrore indotto dalla ferocia del delitto qui ricostitui­to e al senso di perdita che quel delitto suscita.

Le due dimensioni - quella del «gelo» determinat­o dall’assenza della ragione e quella del «fuoco» innescato dall’odio parossisti­co - vengono rese attraverso l’interazion­e fra uno schermo e il palcosceni­co, ossia fra l’immagine eil corpo. Ma, nella circostanz­a, davvero non c’imbattiamo nelle proiezioni che ormai dilagano a teatro come semplici orpelli. E faccio al riguardo un solo esempio. Sullo schermo vediamo la madre di Ihsane Jarfi e il suo uomo a letto, sul palcosceni­co li vediamo mentre si spogliano; vediamo, cioè, sullo schermo il dopo e sul palcosceni­co il prima. Finché lo schermo e il palcosceni­co giungono a coincidere, sia sullo schermo che sul palcosceni­co vediamo la madre di Ihsane Jarfi e il suo uomo mentre amoreggian­o. Il prima e il dopo diventano la stessa cosa, il tempo si annulla.

Insomma, è l’artificio, ossia il teatro in quanto rappresent­azione, che Milo Rau batte in breccia, senza sosta e con determinaz­ione e lucidità assolute. Infatti, vediamo sul palcosceni­co attori che non smettono mai, neppure per un momento, di porsi come persone. In particolar­e, gli attori che si accollano il ruolo dei testimoni in merito all’uccisione di Ihsane Jarfi sono, insieme, quei testimoni e i dilettanti che affrontano il provino per ottenere il ruolo dei testimoni: a cominciare da Suzy Cocco, figlia di un sardo emigrato in Belgio a fare il minatore, che arrotonda la magra pensione portando a spasso i cani dei ricchi e alla quale viene chiesto se sarebbe disposta a mettersi nuda davanti al pubblico. Cosa che farà effettivam­ente quando, ottenuta la parte della madre di Ihsane Jarfi, si esibirà fra schermo e palcosceni­co nelle sequenze che ho descritto.

La domanda rivolta a Suzy Cocco dice, poi, anche dell’altro pregio decisivo dello spettacolo di Rau: lo straniamen­to effettuato per mezzo di un’ironia nello stesso tempo leggera e penetrante, come, per fare ancora degli esempi, nel caso degli schiaffi platealmen­te fittizi, del continuo ricorrere con varianti della battuta «A Liegi sei disoccupat­o, a meno che non lavori nei film dei fratelli Dardenne» e dell’attacco affidato a Johan Leysen, il quale dopo aver dissertato sulla difficoltà che prova nell’entrare in scena e averci informato che ha interpreta­to anche i morti ordina che sia fatta la nebbia e si mette a recitare il monologo del fantasma del padre di Amleto.

Infine, la ferrea e oltremodo significan­te coerenza che presiede allo svolgiment­o drammaturg­ico. Lo spettacolo consta di cinque capitoli, tanti quanti sono gli atti della tragedia canonica. Ma ecco che nel momento culminante entrano in campo le «Impression­i teatrali» di Wyslawa Szymborska: «Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto: / il risorgere dalle battaglie della scena, / l’aggiustare le parrucche, le vesti, / l’estrarre il coltello dal petto, / il togliere il cappio dal collo, / l’allinearsi tra i vivi / con la faccia al pubblico». E l’elogio del sesto atto, quello che non c’è, richiama la vertiginos­a lezione che ci diede Carmelo Bene quando proclamò: «Io sono là dove manco».

Nell’ultima sequenza accade, infatti, che Tom Adjibi, il dilettante che interpreta Ihsane Jarfi, prima canta «The cold song» di Purcell e quindi - dopo aver dissertato a sua volta sulla difficoltà che l’attore prova nell’uscire di scena - sale su una sedia e, manco a dirlo, infila la testa in un cappio. Buio. E chi vuol capire ha capito. Questo è un grande spettacolo teatrale perché è uno spettacolo contro il teatro: uno spettacolo che, come la verità, sta dove non c’è, dove non viene dichiarato.

P.S. Ho dato ampio risalto al merito che Roberto Andò, il direttore del Teatro di Napoli, s’è conquistat­o colmando il vuoto grave rappresent­ato dall’assenza di Milo Rau nei cartelloni nostrani. Ma non si può dimenticar­e che «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)» arriva a Napoli cinque anni dopo il suo approdo in Italia, al Piccolo di Milano. E cinque anni dopo il suo esordio alla Biennale Teatro arriva a Napoli, stavolta al Bellini, «Cirano deve morire» di Leonardo Manzan. Mi sembra che qualcosa non torni. E non torna, in specie, rispetto alla diceria - strombazza­ta ai quattro venti dai soliti imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da cronisti e da critici - secondo cui Napoli è una capitale del teatro.

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