Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un delitto in scena
Finalmente arriva a Napoli (sarà in scena al Mercadante oggi e domani) «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)», lo spettacolo-bandiera del teatro di Milo Rau. Ma, prima di descriverlo, mi sembra utile riassumere quanto gli sta dietro. E, innanzitutto, ricordare per sommi capi che cosa ha fatto il quarantasettenne regista di Berna, ormai celeberrimo.
Dietro «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)» c’è il decalogo/manifesto stilato da Rau per il teatro cittadino che dirige a Gent, in Belgio: un decalogo/manifesto che richiama lo spirito del «Dogma 95» di Lars von Trier e che chiunque lavori in quel teatro è tenuto a sottoscrivere. E lo spettacolo che adesso vedremo (ripeto, finalmente) al Mercadante discende dai tre «comandamenti» basilari di tale documento programmatico, l’Uno, il Sette e il Nove: «Non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa»; «Almeno due attori sul palco non devono essere attori professionisti»; «Almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastruttura culturale».
Per quanto poi riguarda ciò che Milo Rau ha fatto, eccone una sintesi estrema. Nel 2007 fondò una casa di produzione a cui diede il nome, davvero tutto un programma, di «International Institute of Political Murder (Istituto Internazionale di Omicidio Politico)». Perché lui è sul serio uno che non le manda a dire. Come già ho avuto occasione di sottolineare, si reca nelle zone di conflitto con la stessa determinazione di un reporter di guerra. E in proposito basterebbe ricordare che nel 2013 il suo spettacolo «I processi di Mosca», centrato, giusto, sulla storia del processo intentato a tre membri del celebre gruppo punk russo Pussy Riot, fu brutalmente interrotto dalla polizia.
Non meno eclatanti, tanto per fare altri due esempi, furono del resto gli «omicidi» commessi da Rau con «Gli ultimi giorni dei Ceausescu», che metteva alla gogna l’ex dittatore rumeno, e «Hate Radio (Radio Odio)», in cui attaccava senz’alcuna remora i responsabili del genocidio ruandese prendendo spunto dall’emittente razzista, realmente esistita a Kigali negli anni ‘90, che soffiava sul fuoco della rivalità fra Tutsi e Hutu. E per restare all’Africa, non si può dimenticare che nel 2015 Milo Rau riunì a Bukavu, con lo spettacolo «Il tribunale sul Congo», ben sessanta testimoni ed esperti della guerra civile che da oltre vent’anni aveva trasformato in un inferno l’est del paese.
Ma veniamo a «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)». Il plot (se di plot si può parlare) trae spunto da quanto accadde nell’aprile del 2012 a
Arriva finalmente a Napoli (oggi e domani al Mercadante) lo spettacolo-bandiera del celeberrimo regista svizzero Milo Rau: «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)»
Liegi: una notte, dopo aver parlato per qualche tempo con un gruppo di ragazzi davanti a un bar gay, un uomo di origine magrebina, Ihsane Jarfi, fu pestato a sangue e rinchiuso nel bagagliaio di una Polo grigia; e due settimane più tardi il suo cadavere nudo venne rinvenuto al limitare di un bosco. L’uomo era stato torturato per ore e assassinato con ferocia inaudita.
Ebbene, Milo Rau si sofferma non soltanto sulle origini e le motivazioni dell’assassinio, inquadrabili nella violenza e nella disperazione a cui il declino economico ha condotto Liegi, ma, anche e soprattutto, proprio sui suoi particolari e sulle modalità della sua esecuzione. Perché lo scopo fondamentale dell’autore e regista svizzero - in linea con i tre «comandamenti» del suo decalogo/manifesto citati - è quello di dar forma al «tragico» come rappresentazione allegorica della criminologia.
Di conseguenza, radicale appare il dispiegarsi senza freno, nello spettacolo di cui parliamo, dell’emozione legata, insieme, al terrore indotto dalla ferocia del delitto qui ricostituito e al senso di perdita che quel delitto suscita.
Le due dimensioni - quella del «gelo» determinato dall’assenza della ragione e quella del «fuoco» innescato dall’odio parossistico - vengono rese attraverso l’interazione fra uno schermo e il palcoscenico, ossia fra l’immagine eil corpo. Ma, nella circostanza, davvero non c’imbattiamo nelle proiezioni che ormai dilagano a teatro come semplici orpelli. E faccio al riguardo un solo esempio. Sullo schermo vediamo la madre di Ihsane Jarfi e il suo uomo a letto, sul palcoscenico li vediamo mentre si spogliano; vediamo, cioè, sullo schermo il dopo e sul palcoscenico il prima. Finché lo schermo e il palcoscenico giungono a coincidere, sia sullo schermo che sul palcoscenico vediamo la madre di Ihsane Jarfi e il suo uomo mentre amoreggiano. Il prima e il dopo diventano la stessa cosa, il tempo si annulla.
Insomma, è l’artificio, ossia il teatro in quanto rappresentazione, che Milo Rau batte in breccia, senza sosta e con determinazione e lucidità assolute. Infatti, vediamo sul palcoscenico attori che non smettono mai, neppure per un momento, di porsi come persone. In particolare, gli attori che si accollano il ruolo dei testimoni in merito all’uccisione di Ihsane Jarfi sono, insieme, quei testimoni e i dilettanti che affrontano il provino per ottenere il ruolo dei testimoni: a cominciare da Suzy Cocco, figlia di un sardo emigrato in Belgio a fare il minatore, che arrotonda la magra pensione portando a spasso i cani dei ricchi e alla quale viene chiesto se sarebbe disposta a mettersi nuda davanti al pubblico. Cosa che farà effettivamente quando, ottenuta la parte della madre di Ihsane Jarfi, si esibirà fra schermo e palcoscenico nelle sequenze che ho descritto.
La domanda rivolta a Suzy Cocco dice, poi, anche dell’altro pregio decisivo dello spettacolo di Rau: lo straniamento effettuato per mezzo di un’ironia nello stesso tempo leggera e penetrante, come, per fare ancora degli esempi, nel caso degli schiaffi platealmente fittizi, del continuo ricorrere con varianti della battuta «A Liegi sei disoccupato, a meno che non lavori nei film dei fratelli Dardenne» e dell’attacco affidato a Johan Leysen, il quale dopo aver dissertato sulla difficoltà che prova nell’entrare in scena e averci informato che ha interpretato anche i morti ordina che sia fatta la nebbia e si mette a recitare il monologo del fantasma del padre di Amleto.
Infine, la ferrea e oltremodo significante coerenza che presiede allo svolgimento drammaturgico. Lo spettacolo consta di cinque capitoli, tanti quanti sono gli atti della tragedia canonica. Ma ecco che nel momento culminante entrano in campo le «Impressioni teatrali» di Wyslawa Szymborska: «Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto: / il risorgere dalle battaglie della scena, / l’aggiustare le parrucche, le vesti, / l’estrarre il coltello dal petto, / il togliere il cappio dal collo, / l’allinearsi tra i vivi / con la faccia al pubblico». E l’elogio del sesto atto, quello che non c’è, richiama la vertiginosa lezione che ci diede Carmelo Bene quando proclamò: «Io sono là dove manco».
Nell’ultima sequenza accade, infatti, che Tom Adjibi, il dilettante che interpreta Ihsane Jarfi, prima canta «The cold song» di Purcell e quindi - dopo aver dissertato a sua volta sulla difficoltà che l’attore prova nell’uscire di scena - sale su una sedia e, manco a dirlo, infila la testa in un cappio. Buio. E chi vuol capire ha capito. Questo è un grande spettacolo teatrale perché è uno spettacolo contro il teatro: uno spettacolo che, come la verità, sta dove non c’è, dove non viene dichiarato.
P.S. Ho dato ampio risalto al merito che Roberto Andò, il direttore del Teatro di Napoli, s’è conquistato colmando il vuoto grave rappresentato dall’assenza di Milo Rau nei cartelloni nostrani. Ma non si può dimenticare che «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)» arriva a Napoli cinque anni dopo il suo approdo in Italia, al Piccolo di Milano. E cinque anni dopo il suo esordio alla Biennale Teatro arriva a Napoli, stavolta al Bellini, «Cirano deve morire» di Leonardo Manzan. Mi sembra che qualcosa non torni. E non torna, in specie, rispetto alla diceria - strombazzata ai quattro venti dai soliti imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da cronisti e da critici - secondo cui Napoli è una capitale del teatro.