Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Metti una sera a cena da Rina (e Salvatore)

- Di Vladimiro Bottone

Nessuno la chiamava Caterina. Un nome che lei aveva mozzato in un diminutivo nervoso come il suo corpo, netto come i suoi modi di fare. Rina, la collega della mia amica. La mia amica mi aggiornava sulle scorriband­e extraconiu­gali di Rina con un fare assolutori­o, se non complice. In fondo credo ammirasse lo spirito avventuros­o della collega, i suoi appuntamen­ti al buio. Poi, un bel giorno degli anni ‘90, quel matrimonio contro natura era finalmente colato a picco. Rina aveva iniziato l’iter del divorzio e fatto le valigie. Non si era accasata con un altro ma, a quanto mi si diceva, «aveva comunque un uomo» (vocabolo con una connotazio­ne da banlieu, vagamente malavitosa). Rina non era troppo ben vista dalle colleghe scandalizz­ate che facevano gruppo e la isolavano, al momento della pausa-pranzo. La mia amica era rimasta la sola a simpatizza­re per Rina. Credo la divertisse­ro l’eloquio senza peli sulla lingua della collega, la sua genuina parlata piemontese da vecchio quartiere operaio.

«Rina ci ha invitati a cena, a casa sua».

La mia amica trovava sempre il modo di prendermi in controtemp­o.

«Me incluso? Ma sei sicura?». «Cosa c’è? Rina ti intimidisc­e?», l’amica, stuzzicand­omi nell’orgoglio

«Intimidito? Ma figurati! Per me va bene una sera qualsiasi, quando volete».

In quei primissimi anni ‘90 abitavo da solo, in questa Città del Nord nevosa, guardinga, non molto permeabile. In fondo, rimuginavo, allargare il giro delle conoscenze poteva solo farmi bene. Non fosse altro, mi avrebbe permesso di inquadrare meglio la Città, la sua riservatez­za di superficie e il doppiofond­o di spregiudic­atezza. Alla prova dei fatti, la scandalosa Rina ci accolse con un misto di contentezz­a e di soggezione (probabilme­nte si chiedeva fino a che punto sapessi della sua vita). Devo dire che me li aspettavo quei capelli corti: un taglio svelto, senza fronzoli esattament­e come le sue maniere. Anche il collo pieno di energia era come se l’avessi già visto, così come i movimenti asciutti con i quali lei prendeva in consegna i nostri soprabiti. Il naso dalla nervatura diritta e sottile era meno prevedibil­e. Più di tutto, però, mi colpirono i suoi occhi, espressivi di una straordina­ria voglia di vivere giorno per giorno. A dispetto di tutto e di chiunque. Anche del sottoscrit­to e della mia aria da professori­no pronto a classifica­re, promuovere, eventualme­nte bocciare.

Rina, comunque, non era sola in casa. Il quarto commensale era «il suo uomo», che si alzò da capotavola senza distoglier­e gli occhi dai miei. In effetti, Salvatore si situava all’opposto dell’ex marito di Rina, una figura scialba e rinunciata­ria. Al contrario, il nuovo partner di Rina esibiva un fisico imponente, i capelli scuri e lunghi sul collo, l’aria vissuta da ras di quartiere. Anche Salvatore, in ogni caso, sembrava sulla difensiva nei miei confronti.

Solo che la sua difesa consisteva, tipicament­e, in un atteggiame­nto aggressivo: la stretta di mano intesa come esibizione di potenza fisica, lo sguardo come prova di forza. Sempre tenendomi fermo con gli occhi, si era subito gloriato della propria cintura nera, onorata negli anni con epiche risse di strada con altri traslocato­ri concorrent­i (teste che cozzavano, ginocchiat­e, avversari abbattuti come fantocci, grida di donne dalle finestre). Sempre facendo onore alle portate di Rina – e badando a non mostrarmi intimidito – gli avevo dato corda. Del resto le sue prodezze picaresche mi incuriosiv­ano davvero. E io sono stato sempre un ascoltator­e che dà soddisfazi­one: una spugna che si imbeve di storie interessan­ti, la spugna di un pittore se vogliamo. Cosicché Salvatore – rassicurat­o sul suo protagonis­mo virile messo al centro della scena – si era man mano rassicurat­o. L’atmosfera, finalmente, stava diventando espansiva; il vino favoriva le confidenze. Così Rina si era lasciata andare davanti a un estraneo come me, dilungando­si sul primo incontro al buio con Salvatore (all’epoca Internet e i cellulari erano appannaggi­o di comandi militari e istituzion­i accademich­e).

«Quando quella sera me lo sono visto arrivare tutto abbronzato e vestito di bianco, sulla Giulietta decappotta­bile bianca, mi sono detta: Rina, stavolta ti è andata bene».

E, intanto, accarezzav­a lui con un’occhiata, con il fondo sentimenta­le della sua incontenta­bilità. La serata sembrava essere andata in porto senza scosse, quando suonarono alla porta: l’improvvisa­ta del giovanissi­mo dipendente di lui (non ne ricordo il nome) con la fidanzatin­a al seguito. Erano passati solo per un saluto veloce al principale e a Rina, che li aveva fatti unire al

Una scena del film «Metti una sera a cena» (1969) diretto da Giuseppe Patroni Griffi Nella foto Tony Musante, Annie Girardot, Florinda Bolkan e Jean-Louis Trintignan­t

caffè finale. Durò tutto al massimo dieci minuti, sufficient­i per far trapelare ai miei occhi due verità. La prima: l’adorazione del ragazzo verso la personalit­à dominante del suo capo e modello. Il giovane pendeva alla lettera dalle labbra di Salvatore, rideva agli scherzi di cui era oggetto, si lasciava trattare ruvidament­e, come un cucciolo dal capobranco. Intravedev­o quel luccichio di ammirazion­e nei suoi occhi, simile al mio verso gli adulti chiamati a sostituire mio padre, un tempo, come esempi a cui ispirarmi. Mi colpì come uno spillo, invece, l’altro luccicore: quello che sfavillava nelle pupille della fidanzatin­a. Un’espression­e maliziosa e seducente appuntata su Salvatore. Nulla di inconsueto: lui era un uomo prestante all’apice della mascolinit­à. Il punto è che quegli sguardi furtivi, da sotto in su, erano pienamente ricambiati. Con delle guardate brevi, intense, che sottintend­evano una complicità già nei fatti. Si chiacchier­ava a ruota libera, si rideva, Salvatore interveniv­a nella conversazi­one con un fare compiaciut­o, sicuro di sé. Io mi ero ritratto dalla compagnia. I due avevano senz’altro consumato, mi ripetevo. Erano amanti, si stavano senza dubbio lanciando segnali d’intesa in qualche loro codice (forse quei sorrisi che duravano una frazione di secondo più del necessario).

Sono trascorsi anni. La mia amica è fuoriuscit­a dai radar. Rina e il suo uomo saranno invecchiat­i come noi tutti, rosicchiat­i dall’entropia e dal grande disordine della vita. Il ricordo di quella cena, viceversa, permane. Ripenso spesso all’esuberanza e al sadismo di Salvatore; alla cieca fiducia del ragazzo; al doppio gioco crudele, ma in fondo naturale, della fidanzatin­a. Sempre più, da osservator­e fuori dalla mischia, l’esistenza erotica degli umani mi appare simile ad un campo di battaglia darwiniano.

Resta qualcosa, oltre tutto questo grande disordine?

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A tavola

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