Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I morti sul lavoro e due film che sarebbe bene andare a rivedere

- Di Goffredo Fofi

Imorti di Palermo di lunedì scorso si aggiungono alle centinaia che ogni anno funestano il mondo del lavoro. E ogni volta Mattarella predica, i giornali piangono o fingono di piangere, e i politici, dopo le dichiarazi­oni d’obbligo, chiudono velocement­e gli occhi. Destino. Fatalità. O anche: costi da pagare in nome del progresso. Chiamando progresso la ricchezza di pochi gabellata per interesse di tutti.

Sono centinaia ogni anno le vittime del lavoro – cioè dell’incuria dei piccoli e grandi industrial­i e degli appaltator­i di mano d’opera, dello scarso interesse di tutti costoro per la vita e la salute dei loro dipendenti. Quante vite perdute in nome del guadagno di pochi o pochissimi! che soltanto al guadagno pensano, molto prima di ogni altra cosa. Sulla pelle dei loro dipendenti – fissi o provvisori. E si direbbe peraltro che la cultura italiana nel suo insieme si sia abituata, e con essa si ha a volte il dubbio che anche una parte dei sindacati si sia abituata… e veda i morti sul lavoro come una sorta di tradizione macabra alla quale non c’è modo di rimediare: una fatalità che bensì si ripresenta così di frequente da essere più che prevedibil­e.

Di questo, quanti sono gli intellettu­ali che se ne occupano e si preoccupan­o – gli scrittori, i giornalist­i, i cineasti - peggio che disattenti, peggio che complici?

Mi tornano in mente due film, che ai funzionari televisivi non viene affatto in mente di ritirar fuori, in occasioni come questa.

Uno, degli anni cinquanta, era ambientato a New York ma venne girato a Londra perché diretto da Edward Dmytryk, un regista accusato di comunismo e colpito dalla «caccia alle streghe» del maccartism­o. Era tratto dal romanzo di Pietro Di Donato, un emigrato italiano a New York, e si chiamava Cristo fra i muratori. Nonostante la furia dei piccoli editori di ritirar fuori tanti libri di ieri, nessuno – mi pare – ha pensato a ristamparl­o.

Il secondo uscì al tempo dell’«autunno caldo» e lo diresse coraggiosa­mente l’ottimo Luigi Comencini, che chissà cosa avrebbe pensato del suo nipote politico. Si chiamava Delitto

d’amore, e vi si vedeva Giuliano Gemma nel ruolo di un operaio milanese che, quando gli muore la moglie (Stefania Sandrelli, nel ruolo di una testarda immigrata dal Sud) per i veleni respirati nella fabbrica dove lavorava, si procura una pistola, si fa ricevere dal padrone di quella fabbrica, e gli spara. Fine. Altri tempi, perché perfino il pubblico borghese applaudiva allora quel film.

Insieme al dolore per i morti di Palermo, dovrebbe attivament­e indignarci un sistema malato che non dà alcun peso alla vita degli operai, dei produttori della sua ricchezza… In nome del Santo Capitale, grande medio piccolo che sia.

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