Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA SINISTRA CHE NON C’E’
C’è da meravigliarsi se una volta accettate, senza più discussioni, le logiche ferree del capitale tout-court, come ormai succede da diversi decenni, ne siano conseguite la fine di ogni tutela e certezza dei diritti e del lavoro per le giovani generazioni, soprattutto nelle aree più deboli del nostro Paese come il Mezzogiorno? Una scoperta? Certo che no. Qualcuno, però, avrebbe il coraggio di negare che il vero male oscuro, la vera paralisi sia nell’incapacità politica di rimettere in discussione quel modello, come pure in passato si tentò di fare, proseguendo lungo il cammino di un riformismo graduale quanto si vuole, ma ostinato e persistente? La sfida, proprio per questo, riguarda tutti, sinistra e destra, specifiche realtà locali, città, regioni e la dimensione continentale che tra poco ci chiamerà alle urne come cittadini europei. Ma quel salto di novità che sarebbe vitale per uscire dalla cappa dell’immobilismo che soffoca da tempo le speranze di cambiamento ci sarà mai? La sinistra, come ammonisce d’Errico, non può ridursi a confondere la politica e le sue scelte d’indirizzo strategico con il manuale Cencelli delle liste e delle candidature d’apparato. E lo stesso non può che dirsi per la destra. Per questo la scommessa non può risparmiare nessuno e deve ripartire da una sorta di «ritorno al futuro». Lo dice bene Cardillo: «Serve una sinistra di popolo e non di ceto politico, nel solco di grandi tradizioni del passato; nella debolezza della società meridionale pesano i ritardi della sinistra, la sua capacità di essere nelle pieghe della società reale e sul territorio... la rottura del rapporto eletto-preferenza-territorio, la fedeltà dei ‘nominati’ ai capi, piuttosto che agli elettori». Tutto vero. Ma la sensazione è che per invertire questa patologica tendenza bisogna tornare a strappare fatti determinando concretamente scenari politico sociali che impongano tematiche diverse e più avanzate. Passare all’attacco. Pretendere. Rompere l’incantesimo che ci ha paralizzati. Ma è possibile? Qualche esempio recentissimo ci arriva dal mondo. Incredibile a dirsi, ma viene dalla culla del capitalismo, da Detroit, dal sindacato dei metalmeccanici americani, l’Uaw, che dopo anni di letargo e acquiescenza si è messo a fare sul serio e ha incrociato letteralmente le braccia per 6 settimane, strappando aumenti dal 20 al 25%. E riduzione di orario. E la settimana di quattro giorni si sperimenta in Germania, su un campione di 45 aziende. Roba che da noi è passata sotto silenzio, o quasi. Come mai? Immaginiamo allora, proviamo a immaginare, anche qui, una sinistra e un sindacato che tornino a fare sul serio. Che impongano le tematiche della settimana super-corta, delle tutele e della sicurezza sul lavoro, del tempo di vita, molto più tempo, libero dal lavoro, dei diritti sociali che sono la premessa e non la conseguenza delle conquiste civili, dell’ascensore sociale bloccato da anni.
Da quanto tempo, qui da noi, il figlio dell’operaio non diventa più dottore? Oppure, per diventarlo, deve prendere il trolley e andarsene all’estero? Provi, la sinistra italiana, e soprattutto dov’è più necessario, qui al Sud, a rimboccarsi di nuovo le maniche, a ridare protagonismo alle battaglie sociali e a chi sa dirigerle e si vedrà se ci sarà più spazio solo per cacicchi e notabili di partito. Nella partita tra capitalismo e mercato senza regole da un lato e la politica dall’altro, la prima mano, giocata in tutto il Novecento è andata ai primi. Dalla capacità d’intrecciare al meglio e diversamente le occasioni offerte da tecnologia, produzione energetica, saperi e ambiente dipende la seconda mano nei decenni che verranno.