Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Dialoghi sulla pizza Tutti dicono I love you
Di pizza si è scritto già troppo. E se ne continua a scrivere. Per me, il tema è stato già ampiamente sviscerato. Game over. E allora perché ne sto scrivendo? La domanda è legittima. Perché me lo hanno chiesto. E allora, cercando di fare di necessità virtù, provo a evidenziare alcune esasperazioni di un fenomeno gastronomico, nato popolare e diventato complesso come e più dell’interpretazione dell’enigmatico sorriso della Mona Lisa. Dopo i fiumi di inchiostro virtual e non consumato sui social e sui giornali sul primato dei cornicioni a canotto su quelli tradizionali, sulle lievitazioni spinte quasi oltre i limiti della frollatura di un taglio di Chianina o della stagionatura di un provolone dell’Appennino meridionale, si continua, e, ahimè, non solo con l’inchiostro virtuale, a discettare di abbinamenti pizza-vino, come se si trattasse di questione di prioritaria importanza al pari di quella palestinese. In realtà, di questione inesistente si tratta. Eh già, perché immaginare l’accoppiata vincente tra le tante espressioni dei frutti della vite e il disco di pasta lievitata e infornata è, palesemente, un’astrusità senza costrutto alcuno.
È evidente che il suddetto disco è in sé del tutto neutro rispetto al vino, come lo è una rosetta di farina bianca senza companatico. L’abbinamento, dunque, può riguardare semmai il contenuto, nel caso del panino, del cosiddetto topping, in quello della pizza. E sarà probabilmente perché sono figlio di un’epoca in cui sulla pizza si beveva, in alternativa a “sorella acqua” e alla bevanda analcolica gasata statunitense dalla formula più segreta del codice di lancio di un missile con testate nucleari, solo birra, anzi la birra italica per antonomasia. Quella associata a una sorridente e ammiccante biondona. Il fatto è che non riesco proprio a comprendere l’originalità, e soprattutto l’utilità, della codificazione degli accostamenti tra la pizza e i vini. Mi sembra evidente, e per questo non oggetto di dimostrazione, che una pizza guarnita con piselli, fettine di guanciale e scaglie di pecorino meriti lo stesso abbinamento di un piatto di pasta con il medesimo legume. E che, invece, una pizza con la zuppa forte (si fa anche questa) chiami lo stesso rosso di buona struttura adeguato alla zuppa dei soffritto tout court. E vogliamo forse parlare della ormai gettonatissima pizza con l’ananas? Beh, in questo caso si può oscillare, a seconda della cottura del frutto tropicale per antonomasia, tra il moscato naturale e quello passito.
Le chiacchiere sulla pizza, insomma, rappresentano spesso solo un vano esercizio senza costrutto, funzionale esclusivamente all’autoaccreditamento come “esperti”. Altro naturalmente è la ricerca di nuove tecnologie finalizzate a rendere il divino alimento sempre più, come si dice ora, sostenibile. Gli studi sulle farine, sulle materie prime da utilizzare, sulle cotture, rappresentano il vero contributo che la scienza può apportare al business globale del disco di pasta lievitato e condito. Sulla pizza, come fattore identitario, come oggetto di abbinamenti improbabili e suggestivi si è già detto troppo. Se ci si ferma a riflettere un attimo si comprende senza bisogno di tante spiegazioni che, in fin dei conti, si tratta, e scusate se è poco, solo di un alimento. Di un alimento, in partenza democratico, che dovrebbe accomunare come una livella, teste coronate e popolani. Fatta per essere mangiata non per diventare oggetto di una tesi di laurea. Da addentare, ancora fumante, con voluttà, masticare sommariamente e buttare giù. In religioso silenzio. Perché col boccone in bocca non si parla. Si sa: è cattiva educazione.