Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I giorni indicibili
Ha calato un autentico asso la seconda edizione del Festival internazionale di teatro «Presente indicativo - Milano Porta Europa» promosso dal Piccolo: l’adattamento de «La douleur (Il dolore)», il romanzo autobiografico di Marguerite Duras, firmato da Patrice Chéreau e interpretato da Dominique Blanc.
È uno spettacolo di altissimo rango, sia per la statura del regista che per quella dell’interprete, «sociétaire» della Comédie-Française e vincitrice di quattro Premi César, della Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia e di quattro Premi Molière, di cui uno proprio per quest’allestimento. Chéreau, scomparso dieci anni fa, lo realizzò nel 2008 insieme con il coreografo Thierry Thieû Niang e, fra l’altro, lo portò al Teatro Vassiliko di Salonicco quando gli venne assegnato il Premio Europa per il Teatro.
In più, lo spettacolo ha assunto un’aura particolare perché è stato presentato al «Grassi», la sede storica del Piccolo in via Rovello, e per una sola sera, quella del 14 maggio, il giorno in cui nel ‘47 fu inaugurato, appunto, il teatro fondato da Strehler e Paolo Grassi. E tanto senza contare che «Il dolore» venne portato in scena, nel 2010, anche dalla grandissima e indimenticabile Mariangela Melato alla quale è oggi intitolata un’altra delle tre sale del Piccolo, il Teatro Studio.
A Napoli la vedemmo al Bellini, l’interpretazione da parte di Mariangela. In vista del debutto, lei mi ripeté ancora una volta che il mestiere dell’attore aveva sempre meno senso e io le ripetei ancora una volta che figuriamoci se ne aveva di più quello del cireneo che ci si ostina a chiamare critico teatrale. Ma poi, poi...
Poi fu Mariangela Melato. Una prova, la sua, intima come lo smarrimento e sontuosa come la rivolta: lo smarrimento di cui era preda nel tunnel della malattia che la stava uccidendo e la rivolta contro la tentazione di arrendersi. Ma, chiusa la (doverosa) parentesi, vengo subito a «Il dolore».
Discende dal diario che Marguerite Duras, entrata nella Resistenza col marito Robert Antelme, scrisse fra il giugno 1944 e i mesi immediatamente successivi alla fine della guerra: il periodo angoscioso trascorso nell’attesa del marito, arrestato assieme alla sorella Marie-Louise e deportato a Dachau. E si tratta di uno dei documenti più terribili circa l’immane tragedia scatenata in Europa dal nazismo e dal fascismo congiunti.
Ecco il punto, però. La chiave del testo è in due frasi, collocate l’una («mi vergogno della letteratura») nella nota introduttiva e l’altra («l’indicibilità dei giorni») in vista della conclusione. Perciò «Il dolore» è fatto di periodi brevi, spesso brevissimi. La letteratura viene rapportata alle funzioni elementari del corpo, morsi di respiro e balzi di cuore.
«Avrà avuto vent’anni. Una pancia enorme che sporgeva dal corpo». A questa pancia si riduce la donna venuta nel centro di raccolta dei reduci dai lager per ritirare gli effetti personali del marito che, invece, è stato fucilato. E infatti la Duras aggiunge: «Mi chiedo se la riconoscerei per strada, ho dimenticato il viso, rivedo solo quella pancia enorme che sporge». Perché, appunto, quella pancia enorme che sporge ha la funzione elementare di perpetuare la vita, nonostante tutto.
Ma siamo solo all’anticipazione dei ben più tremendi racconti che arriveranno in seguito. Quello, specialmente, del ritorno di Robert Antelme da Dachau. Lo hanno ritrovato che stava morendo sotto gli occhi indifferenti dei soldati americani, il corpo ridotto a meno di uno schelegliante tro. E dopo che l’hanno riportato a casa, il dottore «si è fermato di colpo, la mano sulla maniglia. Pallidissimo. Ci ha guardato, poi ha guardato la forma sul divano. Non riusciva a capire. E poi ha capito: quella forma non era ancora morta, ondeggiava tra vita e morte, lui, il dottore, era stato chiamato per farla vivere ancora».
Robert, però, non può nemmeno mangiare, «lo stomaco si sarebbe lacerato sotto il peso del cibo». Gli danno solo un cucchiaino da caffè di brodo sei o sette volte al giorno. E sei o sette volte al giorno devono portarlo al gabinetto. «Usciva da lui una cosa gorgoché, e verdescura che ribolliva, merda mai vista prima». E «Per diciassette giorni l’aspetto della merda è rimasto lo stesso. Per diciassette giorni una merda che non somigliava a niente di noto. A ognuna delle sue sette scariche, noi la annusavamo, la guardavamo senza riconoscerla».
Inutile specificare che, al di là del pur significativo dato di cronaca in sé, siamo di fronte a un’allegoria dell’incomprensibile e dell’incredibile che è accaduto in Europa. Ma qui scatta ciò che fa de «Il dolore» un libro straordinario. In nessun momento della narrazione Marguerite Duras si paralizza nella sua vicenda personale. Ne esce continuamente, per condurla alla coscienza del mondo. Una coscienza innanzitutto e irriducibilmente politica, nel senso più alto e nobile dell’aggettivo, che s’annuncia proprio con l’episodio apparentemente trascurabile della ragazza con la pancia enorme. La Duras la rivede mentre, in coda, legge e rilegge alle vicine l’ultima lettera del marito: «Di’ al nostro bambino che sono stato coraggioso».
Inoltre, e stavolta nel senso concretissimo dell’aggettivo, «Il dolore» è un testo politico perché davvero chiama al banco degl’imputati tutti, a cominciare, nientemeno, da De Gaulle: «De Gaulle non parla di campi di concentramento, colpisce sino a che punto non ne parli, chiaro che gli ripugna integrare il dolore del popolo alla vittoria, teme di indebolire il suo ruolo, il ruolo di De Gaulle, di diminuirne la portata».
Una simile chiamata di correo trova infine sbocco in una delle più lucide prese di posizione che mai siano state assunte in letteratura a proposito dell’orrore scaturito dall’avvento del nazismo: «Una sola risposta per un tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Come si condivide l’idea di eguaglianza, di fraternità. Per sopportarlo, per tollerarne l’idea, condividere il crimine». Per
chiarisce ulteriormente Marguerite Duras, abbiamo l’obbligo di non considerare l’orrore nazista «un destino tedesco», ci tocca il dovere di considerarlo «un destino collettivo».
Ora, non sprecherò tempo a parlare - per ciò che riguarda lo spettacolo in sé - dell’intelligenza e del rigore concettuale unito alla leggerezza che connotano la regia di Chéreau. Basta considerare il tavolo da lavoro dell’autrice collocato sulla destra e la fila di comunissime sedie (l’attesa, per l’appunto) che lo fronteggia a sinistra: traducono come meglio non si sarebbe potuto, e con un’icasticità addirittura travolgente, da un lato l’apriorismo e la premeditazione della scrittura e dall’altro l’innocenza e la condanna ad esserci di chi è oggetto di quella scrittura.
La prova straordinaria (ma, molto di più, a sua volta indicibile) di Dominique Blanc consiste nel muoversi fra le due dimensioni fino a fonderle, stando in equilibrio sul confine tra di esse, rischioso come la lama di un rasoio. E per concludere, mi chiedo quale sia l’elemento che hanno in comune i due adattamenti de «Il dolore» di cui ho parlato.
Quest’elemento, credo, è la lezione impartita da due fra i grandi maestri del teatro contemporaneo, Peter Brook e Tadeusz Kantor: dal primo lo spettacolo della Melato trasse l’essenzialità, nell’occasione volta a un’eclatante sottolineatura per contrasto (le cataste di libri intese a significare l’impotenza o, comunque, l’inadeguatezza delle parole); e dal secondo lo spettacolo della Blanc trae il ricorso agli «oggetti di rango inferiore» (le sedie comunissime, appunto) per significare, sempre in chiave di contrasto, la pregnanza della realtà.
Insieme, i due spettacoli incarnano l’osservazione di Cendrars che non mi stanco di citare a proposito della grazia e della maledizione del teatro, costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo, e continuare ad amarlo».
Al Piccolo «Il dolore» di Marguerite Duras, con la regia di Patrice Chéreau e la grande Dominique Blanc Nel ricordo incnadncellabile di Mariangela Melato che interpretò il testo al Bellini