Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ma qui non siamo l’Atalanta, manca la pazienza E pure il settore giovanile
«Eh ma noi adesso c’abbiamo Manna, vi facciamo vedere noi». Ammirazione e invidia abitano nello stesso condominio. Così i tifosi del Napoli in queste ore si dividono fra coloro che vorrebbero subito Gian Piero Gasperini a Napoli «per tornare a vincere subito» e quelli che cesellano i distinguo, per dire che la riproduzione di quel gioco dalle nostre parti è praticamente impossibile.
Ma dietro la lotteria dei nomi per la panchina, nella quale non ci avventuriamo, c’è la storia dei club, intesa anche come storia dei modelli economici, organizzative e culturali. Alla fine è un confronto fra crescita effimera e crescita organica. I profili di Atalanta e Napoli non si sovrappongono in nulla, anche se tra le due società esistono alcune affinità. La prima è che la gestione fondata sull’equilibrio del conto economico permette ad entrambe di far parte della colonna dei «bravi» sulla lada vagna del calcio italiano, in preda da anni al tumulto da crescita ipertrofica di alcuni e della miseria di altri. Traduzione: chi fa debiti e chi no.
Se si guarda alle vicende proprietarie e gestionali delle tre grandi storiche - Juventus, Inter e Milan - la differenza con Napoli e Atalanta appare palese. Le due società possono a buon diritto collocarsi in quella fascia di «media borghesia» del calcio europeo che cerca faticosamente un modello che permetta loro di non morire di fame nel calcio dei pigliatutto: dai grandi sponsor pubblicitari ai soldi della televisione. Ma le affinità fra le due aziende qui arriva al capolinea. Finisce per molti motivi, ma in primo luogo perché esse sono radicate in due ambienti culturali che hanno gradi di tolleranza dell’insuccesso molto diversi fra loro. A Napoli si è sempre affamati di successo immediato e di risultati altisonanti, siamo nel regno dell’impazienza. A Bergamo sono state accettate in serie annate alcune così così nelle quali i risultati sono sfuggiti all’ultimo momento.
All’interno dello stesso campionato e nella gestione Gasperini l’Atalanta ha spesso avuti momenti di controprestazione e di «assenza». C’è giustamente, fra gli osservatori napoletani, chi si chiede quanto a Napoli sapremmo tollerare queste rilassatezze, noi che in passato abbiamo definito «fallimentare» il secondo posto di Carlo Ancelotti - un abominio logico. Se poi si guarda alla storia, c’è poco fare, l’erba bergamasca è più verde della nostra. Non per i traguardi, noi tre scudetti, loro nessuno. Ma perché loro non sono mai falliti e scomparsi (e noi sì) e soprattutto per la loro attenzione ai giovani. E all’idea che una squadra di serie A è il risultato di un sistema piramidale basato su individuazione, educazione e selezione dei giovani talenti.
Una cosa che da queste parti non c’è mai stata, mentre da loro questa attenzione affonda in ere assai remote, addirittura alla metà del secolo scorso. Il nome «Zingonia», dove da decenni opera un centro che si occupa anche di alimentazione, vita privata, sostegno e formazione tecnica dei ragazzi non è certo un mistero. Ora se ne parla per i successi della squadra maggiore ma si tratta di una vera e propria industria della formazione che lavora a prescindere dai risultati che la squadra ottiene sul campo. Come dite? Faremo la scugnizzeria? Il settore giovanile di Manna. Dai, stiamo parlando di cose serie, a Napoli non c’è un campo per la Primavera. Non c’è un rapporto diretto tra la cura dei giovani - e se è per questo fra lo scouting - e i risultati della squadra maggiore. C’è il lavoro di settori di attività che si finanziano per conto proprio - il mercato dei giovanissimi calciatori esiste e come - ma che appartengono alla cultura di un luogo e di una classe dirigente, anche al di fuori del calcio. Si tratta di una cultura che investe sul proprio territorio. Non che sia un esempio unico. Senza scomodare la Juventus, si può indicare il settore giovanile della Roma come caso virtuoso che ha saputo negli ultimi quarant’anni produrre talenti di prima qualità. Sarebbe bene ricordare questi esempi, e quelli di altre società, quando si parla del nuovo direttore sportivo del Napoli come dell’uomo che costruirà «il settore giovanile». Si tratta di credere e investire sul territorio sul quale si insiste e si è attivi. Prendere nota alla voce: «Io non sono un imprenditore prenditore».
Infine l’assetto societario. La nuova proprietà bergamasco-americana (i Percassi sono l’azionista singolo più pesante) è il risultato di una operazione che ha saputo trovare i soldi per crescere senza alienare il controllo delle operazioni del club. Senz’altro un’alternativa «dolce» e praticabile fra i due estremi del «prendi i soldi e scappa» della vendita totale e quello praticato oggi, la perpetuazione di un modello di proprietà e gestione accentrato nelle mani di una sola famiglia e alla fine di una sola persona. L’assetto Atalanta fa dei soci italiani anche i gestori del club, mentre tutti insieme i proprietari si astengono dall’ interferire nel lavoro quotidiano del tecnico in panchina. Una formula che funziona, una vera cultura imprenditoriale che non «prende» soltanto.