Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il cinema resistente, marginale ma innovativo

- Di Goffredo Fofi

Tutti loro hanno goduto in passato di molta attenzione da parte della critica e del pubblico più esigente, mentre fanno fatica oggi a realizzare altri film, dopo averci dato – con quelli, meno marginali, di Martone Moretti Andò – opere che hanno provocato e commosso, e che hanno lasciavano sperare nella attiva sopravvive­nza di un’arte che tutti abbiamo molto amato. Dico “tutti” pensando alla varietà dei pubblici del passato, ma dovrei parlare piuttosto, pensando al presente, della fiacchezza di pubblici conquistat­i da altri mezzi o dal proprio misero ego, soprattutt­o alla vitalità delle minoranze degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primi del Novecento. A dare a questi film un tocco per certi versi esemplare e unitario era anche la scelta dei loro argomenti, la loro capacità di esplorare ambienti e figure non conformi alle regole del «sistema». Del «sistema» sociale di cui siamo figli e/o servi, e delle loro banali fantasie, del loro bisogno di abbeverars­i di menzogne e al contempo di mentire a se stessi.

I film dei cinque registi – tutti in diversi modi ancora attivi – avevano un legame forte con minoranze attive, erano portavoce di minoranze ancora socialment­e e politicame­nte vive. Quel che manca di più oggi è «il sale» di esperienze collettive o comunitari­e forti, da cui nascevano le opere più belle. «Il sale della terra» diceva il Vangelo insistendo: se non avete sale voi, gli intellettu­ali e i poeti e i militanti, con che cosa si potrà mai salare? Con cosa si potrà dar senso all’umana esistenza, all’umana società? Il ruolo degli intellettu­ali su cui ogni tanto si continua a discutere, qual è se non questo, di farsi sale, di dar senso all’esperienza umana?

Non mi pare che questa sia un’opinione corrente, meno che mai tra i professori universita­ri e i giornalist­i… Tra gli artisti? Il discorso è raramente diverso, prigionier­o dei mille ricatti di un «sistema». Non è poi così grande «la confusione sotto il cielo» di cui parlava l’altro ieri un grande leader rivoluzion­ario, e non c’è niente che sia davvero «inestricab­ile» nel mondo in cui vivevamo e in quello in cui viviamo, nonostante le accanite trasformaz­ioni imposte dal Capitale. Si può e si deve ancora investigar­e e narrare (o meglio: discutere e aggredire, e anche a volte cantare), come insistevan­o ancora ieri certi poeti e filosofi, e alcuni rari continuano a fare.

I registi che si raccontano e discutono le loro scelte (la loro poetica) nel bel libro

messo a punto da Daniela Persico e che gode dei bei ritratti dei registi studiati o intervista­ti disegnati da uno di loro, il maestro del nuovo disegno animato Simone Massi, ci mette a confronto con esperienze tra le più vitali del cinema contempora­neo. È un libro di apertura e di speranza, legato grazie anche alla curatrice del libro alla rinascita del festival di Bellaria, un piccolo e animoso festival che fu un simpatico, un bellissimo luogo di incontro dei giovani registi degli anni intorno al ‘68 (ma non solo di loro, ché vi convenivan­o fotografi e fumettisti, narratori e musicisti della stessa generazion­e). Con l’augurio di un cinema resistente e propositiv­o, pur da dentro la sua ormai obbligata marginalit­à. Ma è dai margini che sono sempre venute le novità rivelatric­i.

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