Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il cinema resistente, marginale ma innovativo
Tutti loro hanno goduto in passato di molta attenzione da parte della critica e del pubblico più esigente, mentre fanno fatica oggi a realizzare altri film, dopo averci dato – con quelli, meno marginali, di Martone Moretti Andò – opere che hanno provocato e commosso, e che hanno lasciavano sperare nella attiva sopravvivenza di un’arte che tutti abbiamo molto amato. Dico “tutti” pensando alla varietà dei pubblici del passato, ma dovrei parlare piuttosto, pensando al presente, della fiacchezza di pubblici conquistati da altri mezzi o dal proprio misero ego, soprattutto alla vitalità delle minoranze degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primi del Novecento. A dare a questi film un tocco per certi versi esemplare e unitario era anche la scelta dei loro argomenti, la loro capacità di esplorare ambienti e figure non conformi alle regole del «sistema». Del «sistema» sociale di cui siamo figli e/o servi, e delle loro banali fantasie, del loro bisogno di abbeverarsi di menzogne e al contempo di mentire a se stessi.
I film dei cinque registi – tutti in diversi modi ancora attivi – avevano un legame forte con minoranze attive, erano portavoce di minoranze ancora socialmente e politicamente vive. Quel che manca di più oggi è «il sale» di esperienze collettive o comunitarie forti, da cui nascevano le opere più belle. «Il sale della terra» diceva il Vangelo insistendo: se non avete sale voi, gli intellettuali e i poeti e i militanti, con che cosa si potrà mai salare? Con cosa si potrà dar senso all’umana esistenza, all’umana società? Il ruolo degli intellettuali su cui ogni tanto si continua a discutere, qual è se non questo, di farsi sale, di dar senso all’esperienza umana?
Non mi pare che questa sia un’opinione corrente, meno che mai tra i professori universitari e i giornalisti… Tra gli artisti? Il discorso è raramente diverso, prigioniero dei mille ricatti di un «sistema». Non è poi così grande «la confusione sotto il cielo» di cui parlava l’altro ieri un grande leader rivoluzionario, e non c’è niente che sia davvero «inestricabile» nel mondo in cui vivevamo e in quello in cui viviamo, nonostante le accanite trasformazioni imposte dal Capitale. Si può e si deve ancora investigare e narrare (o meglio: discutere e aggredire, e anche a volte cantare), come insistevano ancora ieri certi poeti e filosofi, e alcuni rari continuano a fare.
I registi che si raccontano e discutono le loro scelte (la loro poetica) nel bel libro
messo a punto da Daniela Persico e che gode dei bei ritratti dei registi studiati o intervistati disegnati da uno di loro, il maestro del nuovo disegno animato Simone Massi, ci mette a confronto con esperienze tra le più vitali del cinema contemporaneo. È un libro di apertura e di speranza, legato grazie anche alla curatrice del libro alla rinascita del festival di Bellaria, un piccolo e animoso festival che fu un simpatico, un bellissimo luogo di incontro dei giovani registi degli anni intorno al ‘68 (ma non solo di loro, ché vi convenivano fotografi e fumettisti, narratori e musicisti della stessa generazione). Con l’augurio di un cinema resistente e propositivo, pur da dentro la sua ormai obbligata marginalità. Ma è dai margini che sono sempre venute le novità rivelatrici.