Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
I NOSTRI ATENEI NON SONO AZIENDE
L’università italiana è in crisi da anni, e diversi docenti decidono di abbandonare anzi tempo. Le scelte individuali, mai senza sofferenza, vanno rispettate, ma sono comunque effetto del grave declino del percorso dei nostri giovani dalla scuola alla laurea, con deboli eccezioni per le scienze applicate e destinate al mercato immediato. Inquietante resta invece la perdita di peso degli studi umanistici, fondamentali per i rapporti sociali e politici dentro e fra gli Stati. Il già vecchio malessere dell’università italiana si è aggravato con una legge dell’ultimo Berlusconi, del 2010, che ha tagliato drasticamente i finanziamenti, soprattutto al Sud, e ha dettato per un mondo legato alla libertà – come recita la Costituzione – uno schema di competizione generale, intessuto di aspri burocratismi, di artificiose classifiche delle riviste scientifiche, di regole didattiche confuse, e destinate a condizionare il delicato momento delle lezioni. Se si aggiunge il costante taglio dei finanziamenti degli Atenei, sempre più pesante al Sud, si deduce che solo grazie alla dedizione di rettori e docenti, la produzione e la qualità comunque crescono, assieme ai servizi, oggi meno in affanno. Tuttavia, l’istituzione universitaria resta fragile, non priva di precariato e con tanti professori in attesa di inquadramento nel ruolo già conquistato per concorso. E se si pensa che il peggiore trattamento per il Mezzogiorno è venuto, anche dopo Berlusconi, da ex rettori diventati allegramente ministri, è facile capire che il male dell’università italiana sta nella perdita del rapporto fra sviluppo del paese e ricerca in generale. Che fare dunque? Per prima cosa va cancellata la perversa equazione fra università e azienda, estranea al principio della valutazione, che è misura utile e necessaria, se svolta secondo criteri promozionali e di garanzia. E poi vi è il piano della politica. Da un lato il mondo accademico non ha saputo contestare i regolamenti dei quali oggi soffre, e anzi in essi troppo spesso si è accomodato. Dall’altro lato gli studi non sono più nel cuore dei governi, sempre attenti a numeri che non raccontano il nuovo del XXI secolo. Vanno dunque recuperate la critica delle leggi per l’università, e il recupero della ricerca nel vivo dei programmi di governo, a Roma e nelle regioni. Con questi obiettivi, va rivendicato anche il ripristino dell’autonomia degli Atenei, con il completamento rapido degli organici. Forse non sarà la soluzione ottima, ma almeno sarà il segno di re-inizio, evitando il rischio di una privatizzazione selvaggia.