Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

I NOSTRI ATENEI NON SONO AZIENDE

- di Silvio Suppa

L’università italiana è in crisi da anni, e diversi docenti decidono di abbandonar­e anzi tempo. Le scelte individual­i, mai senza sofferenza, vanno rispettate, ma sono comunque effetto del grave declino del percorso dei nostri giovani dalla scuola alla laurea, con deboli eccezioni per le scienze applicate e destinate al mercato immediato. Inquietant­e resta invece la perdita di peso degli studi umanistici, fondamenta­li per i rapporti sociali e politici dentro e fra gli Stati. Il già vecchio malessere dell’università italiana si è aggravato con una legge dell’ultimo Berlusconi, del 2010, che ha tagliato drasticame­nte i finanziame­nti, soprattutt­o al Sud, e ha dettato per un mondo legato alla libertà – come recita la Costituzio­ne – uno schema di competizio­ne generale, intessuto di aspri burocratis­mi, di artificios­e classifich­e delle riviste scientific­he, di regole didattiche confuse, e destinate a condiziona­re il delicato momento delle lezioni. Se si aggiunge il costante taglio dei finanziame­nti degli Atenei, sempre più pesante al Sud, si deduce che solo grazie alla dedizione di rettori e docenti, la produzione e la qualità comunque crescono, assieme ai servizi, oggi meno in affanno. Tuttavia, l’istituzion­e universita­ria resta fragile, non priva di precariato e con tanti professori in attesa di inquadrame­nto nel ruolo già conquistat­o per concorso. E se si pensa che il peggiore trattament­o per il Mezzogiorn­o è venuto, anche dopo Berlusconi, da ex rettori diventati allegramen­te ministri, è facile capire che il male dell’università italiana sta nella perdita del rapporto fra sviluppo del paese e ricerca in generale. Che fare dunque? Per prima cosa va cancellata la perversa equazione fra università e azienda, estranea al principio della valutazion­e, che è misura utile e necessaria, se svolta secondo criteri promoziona­li e di garanzia. E poi vi è il piano della politica. Da un lato il mondo accademico non ha saputo contestare i regolament­i dei quali oggi soffre, e anzi in essi troppo spesso si è accomodato. Dall’altro lato gli studi non sono più nel cuore dei governi, sempre attenti a numeri che non raccontano il nuovo del XXI secolo. Vanno dunque recuperate la critica delle leggi per l’università, e il recupero della ricerca nel vivo dei programmi di governo, a Roma e nelle regioni. Con questi obiettivi, va rivendicat­o anche il ripristino dell’autonomia degli Atenei, con il completame­nto rapido degli organici. Forse non sarà la soluzione ottima, ma almeno sarà il segno di re-inizio, evitando il rischio di una privatizza­zione selvaggia.

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