Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
DIFESA DEL LAVORO E DELLA VITA
Li chiamano parchi minerali, gli enormi cumuli di ferro e carbone depositati a Taranto, scorie della produzione di acciaio; parchi minerari, quasi siano percorsi utili agli studiosi di mineralogia, e non – come in effetti è – concentrati di veleni mobili, pronti a ondeggiare con i venti da sud e da nord, e a trasformarsi in morte leggera e lenta nel tempo. Occorre finalmente convincersi che il siderurgico ionico non si valuta solo in quantità di lavoro, ma anche in quantità di decessi, secondo l’ineffabile regola per cui «a chi capita capita». E nello sfondo, anche l’agricoltura si tinge di rosso, e guadagna la diffidenza dei consumatori e dei mercati. Nelle attuali trattative tra sindacati e governo, il problema non sembra centrale, e i deboli riferimenti che talvolta intervengono, si ammortizzano in vaghe promesse di copertura di queste polveri, da realizzare in futuro. Coperture? È il vecchio espediente della spazzatura sotto il tappeto: i teli prima o poi si lacerano, sottoposti all’azione salina e ai venti spesso impetuosi. Ci vuole altro, in un quadro in cui, se il lavoro resta il bisogno più immediato, la nuova coscienza ecologica ha alimentato la netta percezione di mezzo secolo di gravi offese alla qualità del vivere. Nessuno vuole maledire l’industria, che tuttavia – specie quella pesante – oggi va esercitata con logiche diverse. Non siamo più al fordismo e all’equazione fra ciminiere e progresso, e se Ford operava negli immensi spazi americani, Taranto è una cosa geograficamente piccola, ormai del tutto sottratta alla sua antica vocazione del mare e delle colture ad esso connesse. Tutto questo territorio è devastato fin dentro le case, dentro ogni passeggiata e ogni terrazzo, e non è poi assurdo porsi una domanda di fondo: in nome del lavoro, fin dove si vuole spingere l’inquinamento e il degrado? E la copertura, per ora assente, risolverebbe il problema o lo aggraverebbe, con un paesaggio di depositi precariamente impacchettati? Sono interrogativi che meritano più di qualche risposta retorica, e che ricadono su tutte le generazioni future di quelle aree, mentre già impegnano tutto il fragilissimo sistema sanitario regionale. Continuando con questo passo, presto giungeremo – ma già ci siamo – al guadagno di un soggetto privato, a prezzo delle sofferenze di tanti cittadini e della finanza pubblica. Detto così non è un affare; la politica esca dalle polemiche di rito e faccia la sua parte, spinga la proprietà dell’impresa a partecipare concretamente alla rimozione dei residui velenosi. Sarebbe un primo, ottimo segnale, a difesa del lavoro e della vita.