Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
«Noi, ragazzi del Flacco negli anni ’50»
Omaggio allo storico liceo barese, una scuola sempre in vetta alle classifiche di qualità
Probabilmente non c’è nulla meglio di un liceo per cogliere i segni del mutamento di una città, delle sue trasformazioni sociali ed in particolare di quelle della borghesia che di questi mutamenti è il più sensibile termometro. Negli anni ’50, quelli di cui voglio parlare, i licei classici baresi non si erano ancora moltiplicati. A Bari erano tre, ma il Flacco era, e pretendeva di essere, il liceo classico per eccellenza della città.
Probabilmente non c’è nulla meglio di un liceo per cogliere i segni del mutamento di una città, delle sue trasformazioni sociali ed in particolare di quelle della borghesia che di questi mutamenti è il più sensibile termometro.
Negli anni ’50, quelli di cui voglio parlare, i licei classici baresi non si erano ancora moltiplicati. A Bari erano tre ed ognuno aveva identità e funzione ben precise: il Flacco, pubblico, il Di Cagno, dei gesuiti ed il Cirillo, Convitto nazionale. Per il Ministero e per gli atti ufficiali era l’Orazio Flacco ma per i suoi studenti era solo il Flacco. Qualcuno, come me, ha scoperto che Orazio era la stessa persona solo dopo un paio d’anni di ginnasio. E non ero il solo. Anche per la città tutta era solo il Flacco, visto che anche il grande viale che parte dal Policlinico ha la targa su cui è scritto semplicemente O. Flacco. Il Flacco era, e pretendeva di essere, il liceo classico per eccellenza della città. Quello a cui la borghesia barese affidava fiduciosa i propri figli ed il loro futuro. Scelta felice viste le prestigiose storie professionali di tantissimi ex allievi ed anche di ragazze che come medici, scienziati, magistrati, ecc. hanno fatto grandi carriere in campi ben diversi da quelli tradizionalmente considerati «adatti ad una donna», come l’insegnamento.
Il Flacco era la scuola per definizione della borghesia barese non solo per il livello dell’insegnamento ma soprattutto per il suo clima culturale aperto e democratico. Oltre che, come era considerato ovvio all’epoca, per lo spirito fortemente meritocratico che lo pervadeva. Il che, detto in altri termini, significava che le bocciature erano tante ed alla licenza liceale si arrivava darwinisticamente in pochi. Qualcuno, enfaticamente ed esagerando, aggiungeva i migliori.
I ’50 – i miei anni al Flacco – erano gli anni in cui l’Italia si stava trasformando profondamente ed ancora più profondamente stava cambiando il mezzogiorno. La lunga fase della ricostruzione si stava esaurendo ed il paese guardava con ottimismo al futuro. Il miracolo economico era all’orizzonte. Nel ’57 l’Italia entrava alla pari con gli altri paesi nel Mercato Comune Europeo; erano passati poco più di dieci da quando per aderire alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) l’Italia aveva dovuto dare in cambio del carbone necessario alle sue rinascenti industrie migliaia di lavoratori affamati, per lo più meridionali, portati – ma di fatto deportati - nelle miniere belghe. Fu necessaria la tragedia di Marcinelle per risvegliare il ricordo ed il senso di colpa del paese.
L’Italia era in bilico tra un passato di arretratezza, che soprattutto nel mezzogiorno esercitava tutto il suo peso, ed un futuro moderno e prospero che sembrava attenderla dietro l’angolo. Noi studenti del Flacco appartenevamo ad una generazione in bilico in un Mezzogiorno in bilico. Spesso, ciò di cui si discuteva a scuola era distante, per i principi che lo ispiravano, persino da quanto si diceva anche a casa.
Il diffuso desiderio di cambiamento, pur diversamente interpretato, provocava naturalmente un diffuso desiderio di politica. La politica al Flacco era di casa anche se, in genere, era maneggiata con molto rispetto reciproco. Molta attenzione era perciò rivolta ai docenti di storia e filosofia che con accenti e punti di vista diversi ci parlavano di risorgimento e di fasci- smo, di Croce e di Marx. Lo spettro politico dei professori era, del resto, molto ampio: dai comunisti ai liberali, dai socialisti ai democristiani, dai repubblicani ai variamente etichettati nostalgici. La dimensione politica dello studio era costante e largamente accettata anche se spesso si aprivano vivaci ed interminabili dibattiti. Ci fu persino una contrapposizione, per alcuni aspetti anche politica, che vide la presenza di due giornali nello stesso liceo: La voce dello studente e A prescindere. Erano, inoltre, gli anni della guerra fredda. La rivoluzione ungherese del ’56 e la sua repressione infiammò e divise noi studenti e gli stessi docenti. La spaccatura fu profonda anche all’interno dei «professori di sinistra» dal momento che ci fu chi – sconcertandoci – definì gli insorti ungheresi solo dei fascisti. Il corteo degli studenti del Flacco che solidarizzavano con gli insorti ungheresi fu sciolto dalla polizia con gli idranti davanti al Petruzzelli. Comunque, per il costante e vivace confronto politico le occasioni non mancavano. C’erano, per esempio, Pio XII che mette- va in guardia – prendendosela con la Corte Costituzionale – sugli eccessi che avrebbero espanso in modo eccessivo la libertà di espressione, o il lancio dello Sputnik del ’57, orgoglio del mondo socialista. Tutto poteva diventare l’occasione per confrontare i diversi sistemi politici. Ci fu, però, anche un dotto docente che cercò di dimostrare come il satellite sovietico confermasse i sette cieli danteschi. Lo ascoltammo perplessi ma in rispettoso silenzio.
Anche Bari stava cambiando e gli equilibri politici durati un quarto di secolo si andavano sgretolando, quantomeno per quanto riguarda simboli ed etichette. Nel 1956 termina il suo mandato l’ultimo sindaco di destra – il monarchico Chieco – che passa la mano al medico della sinistra democristiana Nicola Damiani che aprirà – con il solo intervallo del socialista Peppino Papalia - il lungo regno barese della DC. Ma non c’era solo la politica al centro dei nostri discorsi. Ci fu, per esempio, nel ’56, il «mostro di Bari», Franco Percoco, che uccise genitori e fratello nascondendo i corpi in un armadio. Ci fu anche chi, con rilevanti acrobazie argomentative, collegò il delitto alla quasi contemporanea chiusura dei casini, tema che, onestamente, era dominante nelle terze liceo. C’era, poi, la presenza a Bari come allenatore della squadra di calcio di Federico Allasio che speravamo portasse dalle nostre parti la «povera ma bella» figlia Marisa. Alcuni giuravano, poco creduti, di averla anche incontrata.
Comunque, il nostro grande tema era il che fare da grandi. Siamo stati una generazione che coniugava i propri verbi al futuro. L’emigrazione stava in quegli anni portando milioni di meridionali verso quello che allora era il triangolo industriale. L’Espresso del levante che partiva la sera da Bari per Milano pieno di speranze e di valigie di cartone lo conoscevamo tutti anche se pochi vi avevano viaggiato. Ma anche per noi, per lo più figli fortunati della borghesia urbana, l’andare via ed emigrare faceva parte delle possibilità. Si imparava l’inglese alla Berlitz School – all’epoca non si studiavano le lingue straniere al liceo classico – un po’ per andare a caccia di straniere a Rimini ed un po’ perché in un futuro, che si vedeva già internazionalizzato, sarebbe servito. Anche De Gasperi, del resto, invitava i giovani ad imparare le lingue per andare all’estero.
Era il nostro essere in bilico tra una realtà locale, e spesso anche famigliare, che ci andava stretta ed i sogni di un futuro nebuloso ma certamente migliore. Eravamo affascinati dai film che ci raccontavano di una gioventù diversa e ribelle – Il film di Marcel Carné Peccatori in blue jeans ebbe un successo straordinario – ma avevamo addosso tutto il peso di una società tradizionale perbenista. Le compagne di scuola erano splendide ma, pur prossime nelle aule, sembravano lontane ed arroccate nelle loro sezioni femminili. Le rivedevamo alle feste dove andavamo in giacca e cravatta sperando in qualche mattonella promettente ed in un aiuto dei Platters. Una volta lì però, in mancanza di meglio, finivamo per discutere per ore del tremendo Settimo sigillo, ultimo film di Bergman, passando però rapidamente alla colonna sonora del Ponte sul fiume Kwai, che, rinunziando alla mattonella, fischiavamo ballando. L’argomento principale di ogni discorso era, comunque, l’appena nata – e sognata – Fiat 500 che del nostro futuro prossimo venturo avevamo scelto come realistico simbolo.
Le idee Lo spettro politico dei professori era ampio Comunisti, liberali socialisti, democristiani E poi i «nostalgici» Le cose Argomento principale di ogni discorso era l’appena nata Fiat 500, il simbolo del nostro futuro