Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Lo sconfitto D’Alema e la fatale vanità che costò cara anche a De Mita
Massimo D’Alema ha sempre detto: i risultati elettorali si devono leggere attraverso i voti reali e, dunque, il suo 4 marzo si condensa in 10.552 voti, un quarto dei 46.891 di Teresa Bellanova (Pd) molti meno dei 95.081 di Luciano Cariddi (centrodestra), per non parlare dei 107.722 della pentestellata Barbara Lezzi che ha sbaragliato tutti. Quella di D’Alema è una triste parabola che ricorda quella di Ciriaco De Mita. Sono uomini diversi per temperamento, per storia politica, simili per arguzia, cultura, preparazione, ma entrambi sono stati sconfitti da un sentimento: la vanità. Il grande democristiano di Nusco preferí sbattere la porta del Pd quando Prodi non lo candidò nel 2008: 11 legislature, ministeri, presidenze del consiglio erano un bagaglio sufficiente per De Mita la cui carriera era iniziata nel 1963. Ma a 80 anni l’uomo di Nusco decise che non era ancora tempo di farsi da parte e così creò Popolari per la costituente di centro e corse al voto con il centrodestra. Ma fu sconfitto. Un destino che ha segnato anche D’Alema che, dopo sette legislature, non fu candidato nel 2013. Una “rottamazione” dolorosa, inaccettabile, come la mancata candidatura al ruolo di alto rappresentante della politica estera della Ue. Da qui in poi è stata guerra contro Renzi, prima sul referendum costituzionale del 2016, poi con la creazione di Articolo 1, alle urne con Leu. Ma la battaglia corpo a corpo nel “suo Salento” non è servita a nulla: D’Alema, orgoglioso dell’essere stato per lustri il deputato di Gallipoli, non sarà ricordato come senatore di Nardò. Come De Mita non è riuscito a ritagliarsi un ruolo di padre nobile, di personalità di riferimento. Ha rischiato tutto e ha perso tutto.