Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Svelare il pizzo? Scelta doverosa ma che resta ancora difficile C’
è una terra di nessuno abitata da persone che ogni giorno si trovano di fronte le forze armate della malavita organizzata. Una terra abitata da imprenditori, commercianti, professionisti, ma anche operai e casalinghe. Vessati, ricattati e minacciati. Le pratiche per il pizzo, l’usura, il controllo dei commerci sono il quotidiano inferno di chi intraprende un’attività economica nella nostra terra. Nell’infinita lotta che le forze dello stato conducono contro le mafie capita loro di incontrare queste persone, che entrano nelle inchieste come vittime, qualche volta come complici, se non addirittura colpevoli di attività mafiose. La sentenza del Gup, che ha comminato 35 condanne al clan Parisi per innumerevoli reati di mafia, contiene una novità che attraversa quelle terre di nessuno, pone interrogativi e sollecita riflessioni non affrettate e non banali. C’erano due imprenditori accusati di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno è stato condannato, un altro assolto. Altri cinque sono in attesa di giudizio. Le personalità e le sentenze che riguardano i due imprenditori descrivono plasticamente un mondo nel quale i confini tra lecito ed illecito, tra essere vittime o collaboratori si fa sottile fino a scomparire alla vista dei più. Chi non denuncia per paura è colluso? E quello che di necessità sviluppa relazioni è fiancheggiatore? E chi non denuncia è un vigliacco o un cittadino che si sente abbandonato? In una città in cui professionisti di chiara fama, come rivelano altre inchieste preferiscono rivolgersi al boss di quartiere invece che alle forze dell’ordine per risolvere qualche guaio le domande sono di quelle difficili da risolvere sbrigativamente. In tanti preferiscono accettare i «consigli per gli acquisti» dei clan per le forniture dei cantieri, ad esempio, piuttosto che rischiare la distruzione dei mezzi che costano milioni. Cosa che accade anche nelle campagne.
Denunciare è sempre la via maestra, non ci sono dubbi. La cultura della denuncia accompagnata alla mobilitazione sociale è certamente un antidoto al dilagare della prepotenza mafiosa, ma può bastare? Un imprenditore assolto ed uno condannato raccontano di un mondo grigio, liquido, indefinibile. Si rischia di mettere fra l’incudine e il martello chi deve scegliere fra un cantiere distrutto e bruciato o una condanna penale. I livelli investigativi forse dovrebbero scavare di più e meglio nelle motivazioni che spingono le persone a cedere e a pagare. Diversa cosa ovviamente è la dimostrata appartenenza ad un clan. Ma in tanti hanno avuto una vita difficile dopo una denuncia. Spesso hanno dovuto cambiare mestiere o città. Non sempre una bella prospettiva.
I dubbi e le domande
Chi non denuncia per paura è un colluso? E chi non denuncia è un vigliacco o un cittadino che si sente abbandonato?