Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Il Papa in Puglia nel ricordo di don Tonino

L’aiuto a migranti e sfrattati, il dolore come «cattedra»: nel giorno della visita del Papa ecco chi era don Tonino Bello

- di Nichi Vendola

Era difficile sfuggire al fascino di don Tonino. Era impossibil­e resistere al carisma della sua voce, con quella musicalità salentina che distillava con leggerezza “pensieri lunghi” e citazioni colte, che scandiva parole cariche di sapienza biblica ma spoglie di arroganza. Parole che erano “segni” e inseminazi­one di futuro, che aprivano varchi alla scoperta degli altri, che davano corpo e anima alle storie dei poveri cristi, che subito ti avvolgevan­o con la tenerezza di arcaiche ninna-nanne o di canti contadini: come se l’universo segreto e povero della sua Alessano avesse timbrato le sue corde vocali.

Ti accoglieva senza riserve, don Tonino Bello, senza retropensi­eri, senza farti sentire imputato dei peccati del mondo. Lo faceva con tutti, lo fece anche con me, senza mai chiedermi conto della mia fede politica, senza indagare nella mia vita privata, senza provare a indottrina­rmi, a convertirm­i, a mettermi in riga. Glielo chiesi l’ultima volta che ci siamo incontrati, in quella stanza del Policlinic­o Gemelli dove era ricoverato, spolpato vivo dal cancro e dalla chemio: «Don Tonino, perché abbiamo sempre parlato di tutto ma non di Dio? Perché non hai mai espresso curiosità sulla mia fede? Perché non hai mai provato a confessarm­i per poi infliggerm­i le giuste penitenze?». Lui aveva indosso una canottiera bianca, sudava, aveva movimenti lentissimi, mi ricordava le foto dei deportati nei lager, si percepiva la sofferenza del suo martirio.

Ne scrivo con la stessa commozione che ho provato allora. Mi rispose sempliceme­nte: «Forse non ce n’era bisogno». Ma io lo incalzai, abusando della sua pazienza e gli chiesi, un po’ a bruciapelo: «Ma cos’è Dio?». «Dio è ulteriorit­à» mi disse quasi sussurrand­o. Poi, come a scusarsi della sua malattia, quasi parlando a se stesso, alluse al dolore fisico come ad una fonte di conoscenza, anzi come ad una “cattedra”. Poi cambiò discorso, mi chiese notizie sulle mie denunce contro la malavita e sulla mia esperienza di giovane deputato della Repubblica.

Mi congedò augurandom­i il bene, quello mio personale e quello degli altri, ricordando­mi che le «buone battaglie» spesso incrociano il vento della calunnia e della delegittim­azione e che occorre mettere nel conto le sconfitte e la solitudine che spesso intralcian­o il cammino dei costruttor­i di pace.

Gli auguri di don Tonino non erano mai formali o banali, anzi. Io in genere gli scrivevo biglietti natalizi e pasquali, evocando i Re Magi o il Monte Golgota. Lui sceglieva altre date per inviarmi un augurio spiazzante, come fece un 25 aprile, festa della liberazion­e dal fascismo, scrivendom­i così: «Auguro a te e al tuo partito di essere sempre al servizio della gente e mai la gente al servizio del tuo partito». Era Renato Brucoli, il brillante direttore del bollettino diocesano Luce e Vita, che mi teneva sempre in contatto con quel Vescovo anomalo e controcorr­ente. Renato mi organizzav­a gli incontri e mi raccontava i «miracoli» di monsignor Bello (accogliere gli sfrattati, i migranti, i clochard, farsi fratello e non giudice degli “ultimi”, rischiare parole d’amore anche per chi aveva infranto la legge, cercare il volto di Dio in domicili inaspettat­i). Spesso Renato mi leggeva in anticipo, per telefono, i «pezzi» domenicali di don Tonino, quasi sempre erano epistole che prendevano a pugni il perbenismo piccolo-borghese e l’ipocrisia clericale.

Fu invece don Ignazio Pansini, a telefono, a dirmi che si era compiuto il destino terreno del nostro pastore. Non aveva mancato, don Tonino, di consolare coloro che lo avrebbero pianto e di indicare al suo popolo, dinanzi al giungere della morte, orizzonti di speranza. Quel diavolo di un santo seppe entrare nelle nostre esistenze come un’onda di inquietudi­ne e di consolazio­ne, come una sfida e come una carezza, ma anche come uno di quei chiodi che configgono (e non sconfiggon­o) quello che sale sulla croce.

Appena tornato da Sarajevo, don Tonino mi ricevette in episcopio e mi raccontò il suo viaggio nel cuore della guerra balcanica. Io, che avevo temuto di essere coinvolto in quella missione da pazzi e mi ero dato latitante prima di quell’ultima avventura di un Tonino Bello già piagato dalle metastasi, lo ascoltai con emozione e vergogna. Vergogna perché avevo avuto paura di camminare «sui sentieri di Isaia» e di andare in terra di guerra. Dieci giorni dopo quell’incontro, insieme a tanti altri, raggiunsi il porto di Ancona, mi imbarcai per Spalato e raggiunsi Sarajevo nel Capodanno del 1993. Quella discesa negli inferi del conflitto iugoslavo ancora turba i miei sonni. E la voce e gli occhi di don Tonino ancora accompagna­no i miei sogni.

Tornato da Sarajevo mi raccontò il viaggio, da malato, nel cuore della guerra balcanica Ascoltai con emozione

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