Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Grande Arciuli al Petruzzelli tra Bela Bartok e Glass
L’ultimo concerto del Petruzzelli prima della pausa estiva
Alla fine, il pubblico ha concesso molti applausi in platea e qualche mugugno nel foyer. Non è stato un concerto facile quello di domenica al Petruzzelli, ultimo appuntamento della stagione concertistica della Fondazione lirica prima della pausa estiva. In apertura la Cantata profana di Béla Bartók, una composizione sinfonico-corale che ha nella forza d’urto la sua maggiore virtù, oltre che nel labirinto di contrappunti sviluppato dalle voci dell’ampio coro presente in scena. Una pagina dal sapore arcaico e insieme astratto, quasi retrofuturista visto che ormai quel Novecento musicale a cui appartiene (il brano è del 1930) sembra lontanissimo.
Basata su una leggenda popolare romena che contrappone un esperto cacciatore ai suoi sette figli trasformati in cervi, la Cantata è una sorta di favola musicale sul passaggio all’età adulta e sul conflitto tra ordine e libertà. La partitura è una trama fittissima di reti e relazioni rette da regole ferree che comunicano paradossalmente un grande senso di libertà. Qui il Coro del teatro è apparso francamente un po’ spaesato; la resa non è stata adeguata in termini di potenza, e anche la prova vocale dei due solisti (il ten0re Sung Kyu Park e il baritono Miklós Sebestyén), alle prese con profili melodici ardui e inconsueti, non è apparsa convincente. Meglio l’orchestra, diretta dall’americano Dennis Russell Davies con attenzione.
Ancor meglio, decisamente, il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra dello stesso Bartók, un brano scritto dal compositore ungherese sul letto di morte (1945) nell’America che l’aveva accolto esule, in fuga dal nazismo e dalla guerra. Un brano che suona sereno, lirico e riflessivo, quasi mozartiano nel suo equilibrio quanto invece i due Concerti precedenti di Bartók erano aggressivi, virtuosistici e percussivamente violenti. Questo invece è «il passo d’addio di un uomo saggio», per dirla con András Schiff. E il barese Emanuele Arciuli, che ne era il solista al Petruzzelli, l’ha interpretato con la giusta miscela di forza e delicatezza, ironia giocosa e rapimento lirico. Salutato da un’ovazione del pubblico, Arciuli ha concesso anche due piccoli bis, l’Arietta dai Pezzi lirici di Grieg e un brano jazz caro a Bill Evans, Quiet Now.
Il pendolarismo tra Europa e America, che era un po’ il leit motiv della serata, si è infine arrestato oltreoceano con la Settima sinfonia di Philip Glass, scritta nel 2005; an- ch’essa un lavoro sinfonicocorale, pregno di umori e simboli dei nativi americani e dominato dalla presenza di un «daino blu» portatore di conoscenza. Qui evidentemente Russell Davies - collaboratore di lunga data di Glass e interprete d’elezione dei suoi lavori sinfonici su disco - era «la» guida di riferimento per tutti, musicisti e pubblico. E il direttore è riuscito a ottenere una buona intensità sia dal coro nel secondo movimento che dall’orchestra nella parte finale, una sezione che trova il suo pathos nell’alternanza di pause e ripartenze, di crescendo e di silenzi che la anima. Ma si sa, Glass non piace a tutti; troppo americano, troppo «diverso» per il pubblico più conservatore.