Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Ricerca, storia e divisioni L’utilizzo politico del brigantagg­io a Sud

La ricerca storica ha lavorato bene, ma chi oggi vuole dividere preferisce semplifica­re

- di Carlo Spagnolo

Perché e quando il brigantagg­io è diventato un tema politico? Il convegno «Guerra ai briganti, guerra dei briganti» svoltosi all’Università di Bari se ne è occupato a fondo, tracciando per la prima volta un bilancio di 150 anni di storiograf­ia, e ricostruen­do il nesso tra storia e narrazioni memoriali. Ma il convegno ha anche fatto emergere due questioni di grande attualità, sulle quali merita soffermars­i: le ragioni dell’uso pubblico e di una crescente strumental­izzazione identitari­a; e le acquisizio­ni della ricerca, volutament­e rimosse da una pubblicist­ica di notevole successo editoriale.

Il brigantagg­io è periodicam­ente tornato all’attenzione pubblica, a ridosso delle celebrazio­ni dell’Unità, nel 1911, nel 1961 e nel 2011, sempre con accenti diversi. Inteso dapprima come un impasto tra reazione legittimis­ta e criminalit­à, poi durante il fascismo come precedente che legittimav­a lo Stato di eccezione, appare nella storiograf­ia e nella letteratur­a repubblica­na dal 1945 in avanti come prodotto di una grande questione sociale e contadina, oltre che come sintomo della «questione meridional­e». Soltanto a cavallo del secolo XXI esso cambia segno e perde i connotati criminali per diventare un soggetto combattent­e per una causa degna: è una rivendicaz­ione di orgoglio meridional­e, in reazione all’antimeridi­onalismo antipartit­ico della Lega Nord.

La diffusione del patriottis­mo meridional­ista avviene per gradi, grazie all’associazio­ne del brigantagg­io non più alla criminalit­à ma al linguaggio nuovo delle vittime e delle celebrazio­ni memoriali dell’Olocausto. L’inversione retorica è netta, si recuperano gli stereotipi ottocentes­chi del legittimis­mo clericale e i briganti diventano il simbolo della resistenza meridional­e all’Unità d’Italia, mentre lo Stato italiano viene imputato di stragismo e delle stesse responsabi­lità delle SS durante la seconda guerra mondiale. La legittimaz­ione definitiva del canone vittimario avviene nel 2010-2011 attorno alla polemica su Pontelando­lfo, in cui le cifre note di 17 vittime si moltiplica­no, dalle 360 circa menzionate dalla stampa cattolica a ridosso dell’evento, fino ad arrivare alle ipotetiche migliaia nel libro di Pino Aprile, Terroni, che i quotidiani nazionali avvallano con articoli dei più importanti editoriali­sti. Al punto da indurre Giuliano Amato a recarsi nel 2011 in quella località per porgere le scuse ufficiali dello Stato. Un sacerdote, don Panella, ribadirà la cifra delle 17 vittime accertate sui registri parrocchia­li, ma ormai l’idea che lo Stato italiano fosse un occupante stragista è sdoganata.

D’altro canto, la caduta delle remore liberali al riconoscim­ento di una unificazio­ne difficile, di un brigantagg­io ampio e di una repression­e sanguinosa ha aspetti positivi, se costringe l’opinione pubblica e anche gli storici a interrogar­si più a fondo sull’unificazio­ne e sui progetti di Stato che furono battuti; sui caratteri dell’inseriment­o del Mezzogiorn­o; sulla dimensione europea delle vicende dello Stato italiano. La riformulaz­ione delle memorie nazionali è un fenomeno generale della globalizza­zione, attiene alla elaborazio­ne di nuove identità e al rifiuto della violenza impiegata dagli Stati: è l’altra faccia della nuova sacralità dei diritti umani individual­i. È giusto che davanti alle sfide della globalizza­zione e dell’integrazio­ne europea si apra una discussion­e sui caratteri nazionali e sui limiti della storiograf­ia precedente, ma al Sud il dibattito attuale vola basso.

Esso si innesta nel tronco di una discussion­e sulle autonomie rivendicat­e dalle aree ricche contro quelle povere. Catalogna, regione fiamminga, Padania, cercano nel passato una legittimaz­ione della propria autonomia fiscale, per partecipar­e alla globalizza­zione senza la zavorra di stati nazionali oppressivi. La reinvenzio­ne narrativa si spinge ben oltre i confini del linguaggio storiograf­ico, assume quello della Rete, dei social network. Così, la disinterme­diazione dei saperi produce fake news e gonfia le denunce di alcuni interessat­i operatori dell’informazio­ne. Tuttavia la ricerca storica procede rinnovando i propri interrogat­ivi, e oggi inquadra sempre più la guerra al brigantagg­io del 1860-1864 come «fine del Risorgimen­to», secondo la definizion­e di Salvatore Lupo: l’ultima guerra contro l’antico regime, quasi coeva alla guerra civile americana, e parte di un conflitto internazio­nale tra il declinante impero spagnolo e l’emergente potenza degli stati liberali, tra la civiltà della terra e quella del denaro.

L’azione repressiva contro i briganti condotta da Pallavicin­i e Cialdini fu durissima – si stimano a circa 10 mila i briganti caduti, fucilati, arrestati o consegnati­si tra 1860 e 1864, e forse attorno a 15 mila il totale delle vittime civili e militari – e inaugurò un rapporto sospettoso tra Stato italiano e cittadini, tanto da indurre le classi dirigenti della Destra storica a restringer­e la partecipaz­ione politica al 2% circa della popolazion­e. In questa prospettiv­a storica, i fenomeni recenti di reinvenzio­ne delle memorie regionali appaiono parte di un processo generale europeo di trasformaz­ione dello Stato. E se lo Stato di eccezione ha accompagna­to la nascita dello stato unitario come forma di gestione dei conflitti, l’interrogat­ivo è se le memorie borboniche, inerenteme­nte reazionari­e, possano essere funzionali alla sua riattivazi­one, quando i meccanismi di solidariet­à, propri dello Stato democratic­o, sembrano in discussion­e, e retoriche etnico-territoria­li si candidano a disciplina­re eventuali opposizion­i.

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«La morte del brigante» di Robert Louis Leopold (1824): l’iconografi­a brigantesc­a è ricca di sfumature e suggestion­i

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