Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Ricerca, storia e divisioni L’utilizzo politico del brigantaggio a Sud
La ricerca storica ha lavorato bene, ma chi oggi vuole dividere preferisce semplificare
Perché e quando il brigantaggio è diventato un tema politico? Il convegno «Guerra ai briganti, guerra dei briganti» svoltosi all’Università di Bari se ne è occupato a fondo, tracciando per la prima volta un bilancio di 150 anni di storiografia, e ricostruendo il nesso tra storia e narrazioni memoriali. Ma il convegno ha anche fatto emergere due questioni di grande attualità, sulle quali merita soffermarsi: le ragioni dell’uso pubblico e di una crescente strumentalizzazione identitaria; e le acquisizioni della ricerca, volutamente rimosse da una pubblicistica di notevole successo editoriale.
Il brigantaggio è periodicamente tornato all’attenzione pubblica, a ridosso delle celebrazioni dell’Unità, nel 1911, nel 1961 e nel 2011, sempre con accenti diversi. Inteso dapprima come un impasto tra reazione legittimista e criminalità, poi durante il fascismo come precedente che legittimava lo Stato di eccezione, appare nella storiografia e nella letteratura repubblicana dal 1945 in avanti come prodotto di una grande questione sociale e contadina, oltre che come sintomo della «questione meridionale». Soltanto a cavallo del secolo XXI esso cambia segno e perde i connotati criminali per diventare un soggetto combattente per una causa degna: è una rivendicazione di orgoglio meridionale, in reazione all’antimeridionalismo antipartitico della Lega Nord.
La diffusione del patriottismo meridionalista avviene per gradi, grazie all’associazione del brigantaggio non più alla criminalità ma al linguaggio nuovo delle vittime e delle celebrazioni memoriali dell’Olocausto. L’inversione retorica è netta, si recuperano gli stereotipi ottocenteschi del legittimismo clericale e i briganti diventano il simbolo della resistenza meridionale all’Unità d’Italia, mentre lo Stato italiano viene imputato di stragismo e delle stesse responsabilità delle SS durante la seconda guerra mondiale. La legittimazione definitiva del canone vittimario avviene nel 2010-2011 attorno alla polemica su Pontelandolfo, in cui le cifre note di 17 vittime si moltiplicano, dalle 360 circa menzionate dalla stampa cattolica a ridosso dell’evento, fino ad arrivare alle ipotetiche migliaia nel libro di Pino Aprile, Terroni, che i quotidiani nazionali avvallano con articoli dei più importanti editorialisti. Al punto da indurre Giuliano Amato a recarsi nel 2011 in quella località per porgere le scuse ufficiali dello Stato. Un sacerdote, don Panella, ribadirà la cifra delle 17 vittime accertate sui registri parrocchiali, ma ormai l’idea che lo Stato italiano fosse un occupante stragista è sdoganata.
D’altro canto, la caduta delle remore liberali al riconoscimento di una unificazione difficile, di un brigantaggio ampio e di una repressione sanguinosa ha aspetti positivi, se costringe l’opinione pubblica e anche gli storici a interrogarsi più a fondo sull’unificazione e sui progetti di Stato che furono battuti; sui caratteri dell’inserimento del Mezzogiorno; sulla dimensione europea delle vicende dello Stato italiano. La riformulazione delle memorie nazionali è un fenomeno generale della globalizzazione, attiene alla elaborazione di nuove identità e al rifiuto della violenza impiegata dagli Stati: è l’altra faccia della nuova sacralità dei diritti umani individuali. È giusto che davanti alle sfide della globalizzazione e dell’integrazione europea si apra una discussione sui caratteri nazionali e sui limiti della storiografia precedente, ma al Sud il dibattito attuale vola basso.
Esso si innesta nel tronco di una discussione sulle autonomie rivendicate dalle aree ricche contro quelle povere. Catalogna, regione fiamminga, Padania, cercano nel passato una legittimazione della propria autonomia fiscale, per partecipare alla globalizzazione senza la zavorra di stati nazionali oppressivi. La reinvenzione narrativa si spinge ben oltre i confini del linguaggio storiografico, assume quello della Rete, dei social network. Così, la disintermediazione dei saperi produce fake news e gonfia le denunce di alcuni interessati operatori dell’informazione. Tuttavia la ricerca storica procede rinnovando i propri interrogativi, e oggi inquadra sempre più la guerra al brigantaggio del 1860-1864 come «fine del Risorgimento», secondo la definizione di Salvatore Lupo: l’ultima guerra contro l’antico regime, quasi coeva alla guerra civile americana, e parte di un conflitto internazionale tra il declinante impero spagnolo e l’emergente potenza degli stati liberali, tra la civiltà della terra e quella del denaro.
L’azione repressiva contro i briganti condotta da Pallavicini e Cialdini fu durissima – si stimano a circa 10 mila i briganti caduti, fucilati, arrestati o consegnatisi tra 1860 e 1864, e forse attorno a 15 mila il totale delle vittime civili e militari – e inaugurò un rapporto sospettoso tra Stato italiano e cittadini, tanto da indurre le classi dirigenti della Destra storica a restringere la partecipazione politica al 2% circa della popolazione. In questa prospettiva storica, i fenomeni recenti di reinvenzione delle memorie regionali appaiono parte di un processo generale europeo di trasformazione dello Stato. E se lo Stato di eccezione ha accompagnato la nascita dello stato unitario come forma di gestione dei conflitti, l’interrogativo è se le memorie borboniche, inerentemente reazionarie, possano essere funzionali alla sua riattivazione, quando i meccanismi di solidarietà, propri dello Stato democratico, sembrano in discussione, e retoriche etnico-territoriali si candidano a disciplinare eventuali opposizioni.