Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Motus e Ottaviano bellezza e impegno
Se il teatro e la musica scoprono il senso di un nuovo impegno «politico»
In tempi di forte contrapposizione politica, l’arte tende a scendere in campo. Non tanto schierandosi apertamente con questo o quello (pur essendo scelta in sé legittima, e talvolta praticata), quanto ribadendo una serie di valori di fondo e di scelte ideali ritenute fondamentali. Così, da quando il problema migranti tiene banco nella cronaca e nel dibattito politico, in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, sono sempre di più gli artisti che trovano il modo di dire la loro su una delle questioni più spinose di questo inizio secolo. Magari lanciando ponti tra continenti, come fa la compagnia romagnola Motus nello spettacolo costruito insieme agli attori del La MaMa Theatre newyorkese, Panorama, con l’ideazione e la regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, la drammaturgia di Nicolò e dell’americano Erik Ehn e l’intrigante apparato tecnologico messo a punto per lo spettacolo dal Seoul Institute of the Arts (Corea).
Panorama ha inaugurato nello scorso weekend la nuova stagione del Kismet intitolata «Farsi mondo» con una dura dichiarazione politica; mettendo in scena le storie intrecciate degli stessi attori, restituisce tutto il senso di una contemporaneità dove la mescolanza dei linguaggi e delle culture è già un fatto compiuto. I sei formidabili performer della Great Jones Repertory Company infatti, tutti ospiti (in senso letterale) del La MaMa Theatre e della metropoli newyorkese, hanno percorsi di vita che li hanno portati ai quattro angoli degli Stati Uniti e origini africane, asiatiche, latinoamericane e turche portate non senza orgoglio e cicatrici (lasciate dalle torture di regime o da pratiche estreme). Il loro flow verbale in inglese (tradotto dai sopratitoli) viene rilanciato dagli schermi intorno al palcoscenico in un vertiginoso gioco tecnologico che ribalta e mescola provenienze e identità, anche sessuali, rimandando storie di appartenenze molteplici, di inestricabili mescolanze umane, di marginalità e di rivolta, di speranza e di amore.
Il lavoro ha una sua complessa partitura sonora e visuale che moltiplica i punti d’attenzione e fa spesso accadere più cose simultanea- mente. Gli attori usano microfoni e telecamere per entrare e uscire dagli schermi, costruendo una polifonia che blandisce e minaccia, violenta e coccola. Il finale è forse un po’ debole, a fronte di tanta carne messa al fuoco, perché si risolve in una apologia di New York città delle opportunità che suona francamente un po’ consolatoria, oltre che già abbondantemente vista. Ma resta la forza di oltre un’ora e mezza di spettacolo vibrante e «forte», da cui si viene scossi e a tratti travolti, esperienza rara sulle nostre scene.
L’amore, si diceva. Eternal Love s’intitola l’ultimo album di Roberto Ottaviano, ma il sentimento a cui si riferisce il musicista barese - come ha messo in chiaro durante il concerto di presentazione del disco, la settimana scorsa al teatro Forma - è una dichiarazione politica, utile a «celebrare in questi tempi difficili la speranza e la voglia di riscatto del genere umano». Ottaviano si ricollega agli anni Sessanta e Settanta del jazz afroamericano e inglese, per riannodare il filo interrotto delle utopie, alla ricerca di un «noi» da cui ripartire. Il quintetto (internazionale anch’esso) ascoltato al Forma è una macchina musicale di altissimo livello: musicisti capaci di suonare insieme senza mai saturare gli spazi, lasciando respirare la musica, alternando parti scritte e assoli vibranti. Ottaviano al sassofono e Marco Colonna al clarinetto, l’inglese Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Maier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria hanno dato vita a una performance fatta di fuoco e passione, che ha stregato il pubblico.
Partiture
Il loro flow verbale viene moltiplicato dagli schermi intorno al palcoscenico