Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
LA VISTA LUNGA DEI SINDACATI
Lo sciopero dei metalmeccanici dei giorni scorso ha posto al centro dell’attenzione non solo le solite generiche liturgie di richieste sindacali ma un tema di stringente attualità decisivo per l’Italia, in particolare per il Sud: quello delle crisi delle aziende meridionali, a cominciare da ArcelorMittal. Dopo che il polo siderurgico tarantino ha deciso di mettere a cassa integrazione circa 1.400 addetti dello stabilimento, a partire dal primo luglio, per tre mesi. Il motivo? Intervenute difficoltà di mercato prospettate dall’azienda, la quale invece avrebbe dovuto, in base agli accordi raggiunti con le federazioni dei metalmeccanici, aumentare la propria produzione a 6 milioni di tonnellate di acciaio. Una scelta del tutto inaspettata che è suonata come un sonoro schiaffo in faccia ai sindacati, in quanto ricorrere nuovamente alla cassa integrazione ordinaria per 1.400 lavoratori non fa che aggravare una situazione già incandescente.
Negli anni della crisi, dal 2008 in poi, nelle aziende metalmeccaniche italiane si sono persi circa 300 mila posti di lavoro complessivamente, equivalenti a un taglio del 25% della capacità produttiva, in particolare in alcune aree industriali del Sud. E non a caso sabato prossimo 22 giugno a Reggio Calabria, Cgil, Cisl e Uil hanno indetto una manifestazione nazionale unitaria, il cui slogan è significativamente Ripartiamo dal Sud per unire il Paese, con l’obiettivo di rivendicare una seria politica industriale, investimenti, e rilancio del Mezzogiorno. L’interrogativo che la vicenda ArcelorMittal e le altre decine di tavoli di crisi sparsi qua e là in tutte le aree meridionali pongono è drammatico: può mai essere possibile che solo le tante vituperate parti sociali negli ultimi anni abbiamo compreso una verità elementare sfuggita ai più recenti governi? Che, cioè, la ripresa del Sistema Italia non può che partire dalla crescita del Sud e che quest’obiettivo non potrà mai essere perseguito se non si rilancia l’industria, vera levatrice di un aumento del Pil nazionale? Può il nostro Paese, seconda nazione industrializzata d’Europa, ridimensionare la produzione siderurgica, senza la quale settori chiavi come l’automotive e l’edilizia non riusciranno mai a rialzare la testa e ad essere adeguatamente competitivi? Se la risposta è no, allora quanto bisognerà ancora attendere affinché l’esecutivo Conte cominci a costruire i capisaldi di una politica industriale 4.0 al passo con i tempi, anche richiamando con forza in sede europea il rispetto delle norme sulla concorrenza, in base alle quali in un Paese Ue il costo del lavoro non può essere del 30 o 40% inferiore al nostro?