Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Due turiste, una «guida» e le basi della civiltà
Vapori oleosi dalle friggitorie mischiati all’aroma, tutto artigiano, della colla. Per un Ferragosto non balneare, dunque non banale, le due amiche avevano stabilito di estasiarsi davanti a «Le sette opere di misericordia», dipinte da Caravaggio a Napoli per dare corpo e figura all’anima stessa della città. Si trattava di due giovani donne colte per come si può esserlo oggi (non parlavano correntemente greco e latino, questo intendo). Stefi, la settentrionale, era magra per ostentazione. La sua secchezza, affilandone il volto per nulla brutto, la rendeva nasuta e ne metteva in risalto le gengive. Anna, la meridionale, era piccola, bistrata e bellina come quegli esemplari di cui si prendono cura, sempre nel Corpo di Napoli, presso l’Ospedale delle bambole. Stefi, per motivi nervosi, frequentava un master in psicologia clinica, con l’ambizione di diventare un fiore d’acciaio. Vista la coda di visitatori ingolfatisi nell’androne del Pio Monte, che da sempre incastona il capolavoro di Caravaggio, le due si misero in posa per un selfie. Ma non un ingenuo autoscatto da buzzurre in gita ferragostana. Il loro era un selfie che rifletteva ironicamente su se stesso. Un meta-autoscatto, insomma. Pertanto la loro espressività risultava ancora più caricata e, dunque, risibile (sempre ammesso che qualcuno abbia voglia di ridere occupandosi di Anna e Stefi). All’improvviso un’ombra mascolina si intrufolò alle loro spalle e fece capolino nell’inquadratura. Le smorfie delle due amiche sfiorirono insieme.
«Scusi! Ma che maniera?». La settentrionale Stefi avrebbe voluto indignarsi in modo da caratterizzarsi come intellettuale. Viceversa la valvola di sfogo fu: «scusi! Ma che maniera?». Tutto qui, come un’illetterata qualsiasi.
L’importuno aveva un aspetto inusuale e disturbante. Capelli lunghi sul collo, la mosca fra mento e labbra che gli conferiva un’aria vagamente seicentesca. Aggiunta decisiva, la pennellata di luce sulfurea nello sguardo. Anna, la meridionale, optò per quel «voi» cerimonioso che, nell’uso locale, dovrebbe ammansire: «ma voi, per caso, siete una guida autorizzata?».
L’ intenzionale vaghezza dello sconosciuto sconcertò entrambe: «In un certo senso».
Stefi si guardò intorno, piuttosto inquieta. Il gruppetto di pacifici pensionati marchigiani era ormai transitato in biglietteria. I tre giovanotti nordici che le precedevano si perdevano in scherzi fanciulleschi. Somigliavano intensamente ai debosciati conoscenti delle sue serate alcoliche ai Navigli. In parole povere: giovani emasculati che, certo, si sarebbero ben guardati dal fare a botte per difendere delle emerite sconosciute. Nella migliore delle ipotesi avrebbero ripreso la scena con lo smartphone, per riversarla in Whatsapp o su Youtube.
«In un certo senso sì, comunque. Potreste considerarmi una Guida».
Il vocabolario dell’uomo, almeno, era curato. Uno squilibrato dal lessico forbito, sai che soddisfazione! Hannibal the Cannibal conosceva a menadito Marco Aurelio, per dire.
«...Una Guida perché cerco di guidare i visitatori verso certe verità che sarebbe bene avessero chiare in testa. Questo se vogliono capire cosa si accingono a vedere. Ora è più chiaro, no?».
No. Gli sguardi fuori fuoco di Anna e di Stefi le rendevano quasi una sola persona. Erano colte per come si può esserlo oggi, si disse l’uomo. Nel senso che avevano frequentato l’università, ecco. Non per niente la segaligna delle due portava l’anello al pollice e avrebbe potuto, benissimo, pinzarselo al naso. L’importuno sospirò.
«Proverò ad essere più chiaro. Io voglio che vi rendiate conto della contraddizione in cui vi trovate stamattina, ecco qua».
Un predicatore? Non aveva la fisionomia inoffensiva da ministro di un culto. Questo qua andava senz’altro classificato come una personalità instabile.
«Voi idolatrate Caravaggio, vero?».
Oggi lo idolatrano tutti. Tutti si sdilinquiscono, davanti alle sue opere. E tutti, invariabilmente, omettono questa realtà spiacevole.
«Quale realtà, scusi?».
«I suoi committenti, il retroterra che gli ha permesso di esistere. Alti prelati che non battevano ciglio se si trattava di mandare qualcuno nelle segrete o al patibolo. Oppure cavalieri di Malta pronti a fare a pezzi gli infedeli. Insomma: i suoi mecenati non ammettevano eresie o che si contraddicesse la Fede. Capite?».
No, evidentemente. Sbattere la verità sul grugno, i grugni sulla verità.
«Voglio dire: le grandi civiltà capaci di produrre l’arte che dura si sono sempre basate sulla durezza: di qua i credenti e il Bene; di là i miscredenti e il Male. È spiacevole, lo so. Eppure senza quella cultura dalla fede dogmatica Caravaggio non sarebbe esistito. Papa Bergoglio, per esempio, è un uomo buonissimo, ma sotto di lui non rifioriranno né la musica, né la pittura, né l’architettura (e neanche la Chiesa, se vogliamo). Perché? Perché la capacità creativa di un’epoca non si nutre di tolleranza e i buoni sentimenti, casomai del contrario. Gesualdo da Venosa, il grande musicista, era un latifondista aristocratico che fece trucidare la moglie mentre costei lo cornificava. Il suo palazzo del femminicida, se interessa, è a trecento metri da qui».
La Stefi non aveva intenzione di scandalizzarsi come una piccola-borghese qualsiasi. Dalla borsa a tracolla estrasse un pacchetto già iniziato. Lo protese all’uomo.
«Non mi deluda: non mi dica che non fuma».
Lo sconosciuto ne agguantò un paio con le dita brune, agilissime. Il suo lampo di malizia e quello sventolio della mano che, nella mimica napoletana, sottintende una presa di congedo definitiva. Dopodiché l’uomo fu inghiottito nel caos dei turisti che ruscellavano giù da via Duomo.
«Che te ne pare?», Anna all’amica, riferendosi a quell’uomo spaventoso. Sole, potevano tirare un sospiro di sollievo. O, come Stefi, delle nevrotiche boccate di fumo.
«Personalità instabile», sentenziò Stefi, «Fra il depresso e il rabbioso. Dal punto di vista clinico un borderline».
«Anche Caravaggio era un borderline, che significa?», insorse Anna, «Non ti ho chiesto una diagnosi, ma un’opinione sulle idee del tizio. Tu medicalizzi tutto!».
L’uomo di prima, non lontano, le osservò gesticolare come due che battibeccano. Bene, gongolò. È questo il compito dell’artista: seminare dubbi, spargere zizzania, dividere come un’arma da taglio.
Quanto alle due ragazze: erano solo delle saputelle che sapevano di sapere e, quindi, non conoscevano un cazzo. Delle donne saccenti, avrebbe detto J. B. Poquelin, in arte Molière.
❞ Erano colte per come si può esserlo oggi, si disse l’uomo. Nel senso che avevano frequentato l’università
Bene, gongolò È questo il compito dell’artista: seminare dubbi, spargere zizzania, dividere