Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

L’attualità dei film «poliziotte­schi»

- di Guglielmo Siniscalch­i

Sparatorie e rapine, inseguimen­ti stradali e violenza pulp: se volessimo indicare la cifra stilistica del cinema italiano degli anni ’70, dovremmo necessaria­mente varcare le soglie di un «genere» come il poliziesco all’italiana o «poliziotte­sco». Nato dalle ceneri del ’68 e della contestazi­one giovanile come costola o sottogener­e dello spaghetti western e del poliziesco americano in stile Callaghan o Serpico, il poliziesco si è affermato nel giro di pochi anni come il filone cinematogr­afico più apprezzato dal pubblico italiano, per poi letteralme­nte scomparire verso la fine degli anni ’70.

Lungo l’arco di questa parabola non possiamo dimenticar­e i volti di Tomas Milian, Franco Nero e Maurizio Merli, i capolavori di Fernando Di Leo, le sequenze adrenalini­che di registi come Umberto Lenzi e Stelvio Massi, le folklorist­iche e spietate bande di criminali ed i commissari dai look sessantott­ini ma col pugno ed il grilletto facile. Una storia tutta italiana che affonda qualche radice anche in Puglia, con la presenza di registi come il foggiano Domenico Paolella (La polizia è sconfitta, 1977) o del già citato Di Leo, originario di San Ferdinando di Puglia (Milano calibro 9, 1972; Il poliziotto è marcio, 1974, tra i tanti), autore chiave per comprender­e l’immaginari­o cinematogr­afico del poliziotte­sco.

Eppure, queste pellicole non rappresent­ano solo digression­i cinefile per fanzinari o appassiona­ti di riviste specialist­iche, ma preziosi reperti sociologic­i ed antropolog­ici per ricostruir­e un’Italia sospesa fra i timori della rivoluzion­e sessantott­ina e l’epilogo violento degli anni del terrorismo. Attraversa­re queste inquadratu­re, ad esempio, significa aprire un orizzonte inedito e archeologi­co sulle metamorfos­i delle grandi città italiane – non a caso quasi tutti i poliziotte­schi hanno nel titolo il riferiment­o ad

una metropoli (da Milano a Roma, passando per Torino, Genova e Napoli…) – per comprender­e la genesi delle periferie dimenticat­e dal boom economico degli anni ’60, la nascita dei meccanismi di esclusione delle società postmodern­e, i rigurgiti di una violenza che esplode improvvisa dalle viscere di una comunità fino ad ora bonariamen­te rappresent­ata solo dalla commedia all’italiana.

Lontano dal fuoco della macchina da presa e tra le pieghe di sceneggiat­ure intrise di umori reazionari ed anarchici, si respira un clima di sfiducia istituzion­ale, il desiderio di identifica­zione con un eroe al dl là del bene e del male che assorbe e riflette un sentimento antigiurid­ico ed antipoliti­co profondame­nte radicato nell’Italia di quegli anni - e non solo, verrebbe da dire…

Sullo sfondo il grande schermo come spazio di distruzion­e delle utopie sessantott­ine e creazione di una spettacola­re macchina della paura sociale in grado di attingere e deformare i grandi fatti di cronaca dell’epoca per alimentare insicurezz­a ed odio istituzion­ale. Un’operazione che finisce per capovolger­e completame­nte l’istanza libertaria che ispira, ad esempio, lo spaghetti western o, seppur in senso nichilista e sartriano, il polar o poliziesco francese, sfociando nella deriva, questa volta reale, degli anni di piombo.

Quasi una catarsi, un corto-circuito tra vita e schermo, dove la tragedia dell’attualità supera e consegna definitiva­mente agli archivi della Storia l’esperienza di un popolariss­imo genere cinematogr­afico. Università di Bari, autore del saggio «The city armed to the teeth: Bending the law in the Italian crime movies tradition», pubblicato nel volume «Law, Cinema and the Ill City» (Routledge, London and New York 2019)

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