Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
L’attualità dei film «poliziotteschi»
Sparatorie e rapine, inseguimenti stradali e violenza pulp: se volessimo indicare la cifra stilistica del cinema italiano degli anni ’70, dovremmo necessariamente varcare le soglie di un «genere» come il poliziesco all’italiana o «poliziottesco». Nato dalle ceneri del ’68 e della contestazione giovanile come costola o sottogenere dello spaghetti western e del poliziesco americano in stile Callaghan o Serpico, il poliziesco si è affermato nel giro di pochi anni come il filone cinematografico più apprezzato dal pubblico italiano, per poi letteralmente scomparire verso la fine degli anni ’70.
Lungo l’arco di questa parabola non possiamo dimenticare i volti di Tomas Milian, Franco Nero e Maurizio Merli, i capolavori di Fernando Di Leo, le sequenze adrenaliniche di registi come Umberto Lenzi e Stelvio Massi, le folkloristiche e spietate bande di criminali ed i commissari dai look sessantottini ma col pugno ed il grilletto facile. Una storia tutta italiana che affonda qualche radice anche in Puglia, con la presenza di registi come il foggiano Domenico Paolella (La polizia è sconfitta, 1977) o del già citato Di Leo, originario di San Ferdinando di Puglia (Milano calibro 9, 1972; Il poliziotto è marcio, 1974, tra i tanti), autore chiave per comprendere l’immaginario cinematografico del poliziottesco.
Eppure, queste pellicole non rappresentano solo digressioni cinefile per fanzinari o appassionati di riviste specialistiche, ma preziosi reperti sociologici ed antropologici per ricostruire un’Italia sospesa fra i timori della rivoluzione sessantottina e l’epilogo violento degli anni del terrorismo. Attraversare queste inquadrature, ad esempio, significa aprire un orizzonte inedito e archeologico sulle metamorfosi delle grandi città italiane – non a caso quasi tutti i poliziotteschi hanno nel titolo il riferimento ad
una metropoli (da Milano a Roma, passando per Torino, Genova e Napoli…) – per comprendere la genesi delle periferie dimenticate dal boom economico degli anni ’60, la nascita dei meccanismi di esclusione delle società postmoderne, i rigurgiti di una violenza che esplode improvvisa dalle viscere di una comunità fino ad ora bonariamente rappresentata solo dalla commedia all’italiana.
Lontano dal fuoco della macchina da presa e tra le pieghe di sceneggiature intrise di umori reazionari ed anarchici, si respira un clima di sfiducia istituzionale, il desiderio di identificazione con un eroe al dl là del bene e del male che assorbe e riflette un sentimento antigiuridico ed antipolitico profondamente radicato nell’Italia di quegli anni - e non solo, verrebbe da dire…
Sullo sfondo il grande schermo come spazio di distruzione delle utopie sessantottine e creazione di una spettacolare macchina della paura sociale in grado di attingere e deformare i grandi fatti di cronaca dell’epoca per alimentare insicurezza ed odio istituzionale. Un’operazione che finisce per capovolgere completamente l’istanza libertaria che ispira, ad esempio, lo spaghetti western o, seppur in senso nichilista e sartriano, il polar o poliziesco francese, sfociando nella deriva, questa volta reale, degli anni di piombo.
Quasi una catarsi, un corto-circuito tra vita e schermo, dove la tragedia dell’attualità supera e consegna definitivamente agli archivi della Storia l’esperienza di un popolarissimo genere cinematografico. Università di Bari, autore del saggio «The city armed to the teeth: Bending the law in the Italian crime movies tradition», pubblicato nel volume «Law, Cinema and the Ill City» (Routledge, London and New York 2019)