Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
I botti a Carrassi accesi insieme ai pargoli dei clan
Le feste a Carrassi e Japigia dove i pargoli dei vari clan si esercitavano con i fuochi
Una guerra mascherata. Ecco come si presentavano i giorni tra Natale e Capodanno a Bari, in quartieri come Carrassi, a sparare petardi con i pargoli dei clan.
Come Baghdad I figli o nipoti dei reclusi di rango si divertivano a trasformare il piazzale della scuola Parini» in una temporanea Baghdad Arrivano i gangster Intorno all’una del nuovo anno arrivavano i gangster, quelli armati di pistola che salivano sui palazzi di Savino Parisi e sparavano al cielo
Per me il Natale, quel periodo che corre tra la notte del 24 dicembre e quella del 31, sono i botti. Botti. Petardi. Esplosioni belliche dentro la città. Così ricordo che quando frequentavo la scuola media Parini, di fronte al carcere di Bari, i miei coetanei figli o nipoti dei reclusi di rango della famiglia Diomede, si divertivano a trasformare il piazzale della scuola in una temporanea Baghdad. Noi, i figli dei non affiliati, eravamo gli indifesi irakeni. Loro, i bombardieri americani.
A quei tempi, all’indomani delle notti delle vigilie, il quartiere Carrassi pullulava di cercatori di polvere da sparo, di ragazzini poveri che raccattavano i petardi inesplosi per ricavarne una gioia tardiva e posticcia. «Mi sono bruciato», li sentivi poi lamentarsi perché quei rimasugli di petardi s’infiammavano dispettosi, troppo presto o troppo tardi. Correvano al pronto soccorso, tanto dista poche centinaia di metri da Carrassi, per farsi medicare e suturare, se necessario. Tornavano tronfi nel quartiere, mostrando il dito fasciato come una ferita guadagnata in prima linea.
Ho vissuto quindi col terrore quegli anni. Terrore motivato e lungo, interminabile, perché prima di Natale Carrassi era al centro di una sanguinosa guerra di mafia. A Natale, durante la pace dei padri, i pargoli dei clan e i loro amichetti si trasformavano in gruppi d’assalto, corpi speciali, militari in piena regola. Carichi di esplosivo, si divertivano a lanciarlo tra le gambe delle signore che si recavano a far la spesa in via Montegrappa o dentro le bancarelle, spaventando le povere anguille già di per sé destinate alla morte. Si divertivano così, bestialmente. E così si preparavano alla notte della vigilia. «Devi vedere quest’anno che facciamo», ci incuriosivano. Puntualmente facevano saltare in aria la cabina della Sip davanti al giardino comunale della Chiesa Russa. Vetri in frantumi, telefoni in pezzi. Tutto sotto gli occhi dei padri, che orgogliosi dei figli (allora come oggi) emergevano dai domiciliari per un quarto d’ora d’aria da riempire di fumo. Fumo acre
che aleggiava nel rione per un paio di giorni, anche perché allora l’amministrazione comunale mica puliva le strade. Lasciava che gli sciacalli dei petardi, come i militi più scaltri sulle carcasse dei commilitoni uccisi, pulissero il campo di battaglia.
Poi veniva il Capodanno. Quella strana festa laica infilata tra il Natale e la Befana. Il Capodanno per tradizione familiare l’ho trascorso per decenni a Japigia. In via Peucetia, per la precisione. E devo ringraziare i miei zii, perché grazie a loro ho potuto imparare cos’è una scenografia di botti. Botti variopinti, botti esaltanti, botti inquietanti. Botti tanto pericolosi che conveniva osservarli stando ben chiusi dietro le doppie finestre di anticorodal. Ricordo che nel tardo pomeriggio del 31 dicembre, quando Japigia assume i colori di una periferia triste, i rampolli
dei Palermiti e dei Parisi piazzavano larghissimi barattoli di latta al centro di via Peucetia. Sotto i barattoli venivano infilati grumi di petardi. Una miccia corta, un focherello e si gareggiava a chi sparava il barattolo più in alto. Poco importava che sotto ci fossero automobili, esseri umani e animali, cassonetti e alberi. Era una gara tra uomini veri, esperti bombaroli della cosca egemone sulla città. Lo spettacolo veniva salutato con applausi finanche dai balconi. Il vincitore poteva fumarsi una canna in santa pace e ritirarsi in una cantina a raccontare le sue gesta davanti a qualche birra. Dopo questi preparativi pomeridiani, dieci minuti prima della mezzanotte, con una sequenza che risentiva della gerarchia tra clan, partivano i botti veri e propri. Prima dalle case popolari dei Palermiti. Dopo, quando noi già eravamo sul terrazzo, da quelle dei Parisi. Infine, intorno all’una, arrivavano i gangster, quelli armati di pistola che salivano sui palazzi di Savino Parisi e sparavano al cielo come per ferire l’anno nuovo appena nato, per azzopparlo al primo vagito. Poi veniva il silenzio.
Ci ritiravamo a casa sbadigliando, con un carico di lenticchie e di spumante nello stomaco. Da Japigia, passando per il ponte di via Omodeo, tornavamo a Carrassi esausti. Con il 31 dicembre si chiudeva l’epopea dei botti e si riapriva la guerra vera, quella che ha lasciato per strada una lunga scia di sangue di morti ammazzati. Una guerra che ancora oggi, tra Carrassi e Japigia, riesplode di quando in quando per non farci dimenticare che assieme al Natale, al Capodanno e alla Befana, un’altra certezza ci regala ogni fine anno questa città: le coreografie della mafia.