Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Per niente Candida

- di Candida Morvillo

Gentile Candida, mi sono laureato un anno fa in Economia e Commercio con il massimo dei voti. Dopo, ho fatto domanda per una cinquantin­a di lavori in Italia e all’estero e non sono mai stato preso. Il più delle volte non mi hanno neanche risposto. Se mi hanno risposto, è stato per dirmi che non avevo abbastanza esperienza. Sto facendo un master, con grandi sacrifici economici e con i salti mortali per studiare e lavorare. Dopo tanto sudore sui libri, ho trovato un lavoro come lavapiatti. Mi sveglio tutte le mattine piangendo di disperazio­ne. Passo la giornata chino o sui libri o sui piatti senza riuscire a fermare la spirale di pensieri negativi. Non mi solleva sapere che i miei compagni di università non se la passano meglio. Mi fa rabbia pensare che quelli che non hanno proseguito gli studi hanno lavori da impiegato o da idraulico che gli consentono un’autonomia che io non riesco neanche a intraveder­e. Ogni mattina di più faccio fatica ad alzarmi dal letto. Ultimament­e, è capitato che non lo facessi e che ci restassi tutto il giorno. Non vedo più gli amici, non ne ho il tempo e mi mette a disagio parlare di me. Di cosa può parlare un fallito? Quando mi sono sforzato di uscire, ci siamo ritrovati a piangerci addosso ed è stato peggio. Di ragazze neanche se ne parla, non ne invito una fuori da dieci mesi e, se qualcuna mi cerca, neanche rispondo. Tre mesi fa, ho smesso di mandare in giro Cv. Apro il computer e penso che non serve a niente. Le mani si bloccano, non posso farci niente. Sento che posso solo andare avanti così, non cambierà mai niente. Cambierà che perderò il posto al ristorante, che dovrò adattarmi a fare un lavoro ancora meno qualifican­te, ancora meno gratifican­te. Fine di tutto, me ne andrò così.

LunaStorta

Caro LunaStorta, lei sa già quanti giovani vivono nella sua stessa condizione. Ma dirsi che è un fallito non descrive la realtà della situazione. Lei non ha colpa di un Paese che non sa più offrire opportunit­à di sviluppo e futuro, ma resta a suo carico la responsabi­lità di farsi largo. Ed è questo il peso che la schiaccia. Oggi, laurearsi col massimo dei voti non è un traguardo, ma una tappa. Era un traguardo, forse, all’alba del secolo scorso. Ma se c’è una costante della realizzazi­one personale, da sempre, è che non si deve mai smettere di lottare. Se lei smette di mandare curriculum vitae, e smette di bussare alle porte, il lavoro non verrà a cercarla nel letto dal quale si rifiuta di alzarsi. Senza azione non c’è evoluzione. Ora lei è stanco, probabilme­nte depresso, di sicuro ostaggio di un meccanismo della mente che le sottrae energia e la vuole apatico e sconfitto. Ma c’è almeno una cosa che deve trovare la forza di fare ed è chiedere aiuto. Ogni Asl ha un servizio di supporto psicologic­o a cui rivolgersi. È il primo passo per rimettersi in sesto e cominciare a riprogramm­are quell’idea di sé che ora la domina. Vedersi già fallito non corrispond­e alla realtà dei fatti. Lei si è laureato col massimo dei voti, ha evidenteme­nte capacità e potenziali­tà. Fa un lavoro duro e riesce a seguire un master. Questa è una fase della sua vita, ma è anche la sua vita e può viverla con gioia, magari aiutandosi con l’ironia. È sempre l’orizzonte delle aspettativ­e che ci frega. Tante persone hanno un ottimo lavoro, ma non per questo sono felici. Stare bene o male dipende dall’universo di significat­i che attribuiam­o alle cose, dipende anzitutto da come pensiamo la nostra realtà. Se l’obiettivo è fare bene quello che ci prefiggiam­o giorno per giorno, come se la vita fosse una marcia passo dopo passo, ogni sera il bilancio sarà positivo, l’umore decente. Sarà decente abbastanza da uscire e svagarsi per due ore o invitar fuori una ragazza e magari innamorars­i. E l’energia per ricomincia­re la mattina dopo sarà sufficient­e per ripartire. Il segreto è avere aspettativ­e solo da sé stessi, non dagli eventi in cui speriamo. E bisogna avere fiducia, che a forza di fare, resistere e fare, la vita ci premia.

Se si fa da mamma al proprio papà

Cara Candida, ho un buon rapporto con mio

padre, anche se ha divorziato da mia madre quando avevo 15 anni. Abbiamo avuto un buon feeling per vent’anni, lui è il mio consiglier­e e confidente e sa dirmi sempre la parola giusta quando serve. Da un anno, dopo molto tempo passato da solo, o comunque senza parlarmi mai di una donna, ha una fidanzata. Questa donna, un po’ più giovane di lui, è a mio avviso un’approfitta­trice. È snob e autoritari­a, lo tratta male, lo fa pendere dalle sue labbra, gli spilla soldi in continuazi­one. Soprattutt­o, mi parla male di lui, se ne lamenta con me. Non la sopporto. E mio padre mi incoraggia ad andarci d’accordo. Ho provato ad aprirgli gli occhi, ma inutilment­e, lui si rifiuta di affrontare la conversazi­one, dice che sono fatti suoi e io sono piena di rabbia.

Figlia Ferita

Cara Figlia Ferita, le è presa la frenesia di far da mamma a suo padre, il quale però non è infermo, non è malato, ha solo fragilità assai diffuse. Come tanti, suo padre si è messo in un sano guaio che può consentirg­li di uscirne più forte. Non sta a lei, però, aprirgli gli occhi. Suo padre fa bene a rifiutare un confronto che minerebbe la sua autorità genitorial­e. Però la sua compagna fa male a coinvolger­la nella relazione e in confidenze che non la riguardano. Deve spiegarle con fermezza e cortesia che non ha intenzione di ascoltare lamentele sul suo papà né di essere coinvolta in affari che riguardano solo loro due. Meno saprà, più potrà essere tollerante. Per il resto, è giusto che suo padre se la sbrighi da solo. Sbagliare e capirlo consente di diventare più intelligen­ti, ma prima bisogna sbagliare e poi capirlo sbattendoc­i la testa. Il confine fra errore e lezione è una linea che è utile attraversa­re da soli. Poi, diceva Charles Dickens, «ci vogliono venti anni a una donna per fare del proprio figlio un uomo, e venti minuti a un’altra donna per farne un idiota». Nello schema, la figlia terza incomoda non è contemplat­a.

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Edward Hopper «Room in New York», particolar­e
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