Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Padre e figlia Prove d’appartenenza
Non so perché, ma mi ha sempre fatto strano osservare mio padre mentre si sbarbava. Sarà che sono una femmina e quindi diversa da lui in modo radicale, originario. Non saprei... Le sue guance schiumate le ricordo benissimo, ho un’ottima memoria visiva. Quello strato bianco, fioccoso che lui asportava con il fruscio di un micidiale rasoio a mano libera. Una preferenza anacronistica da uomo dell’Ottocento; lui era nato a fine anni ‘40, in fondo non molto prima del boom economico. Ora ne ricordo un altro, di particolare: quando si faceva la barba lui notava sempre, nello specchio, qualcosa che lo infelicitava. Ma cosa? In cosa si vedeva incompleto? Non ho fatto in tempo a domandarglielo, anche per una questione di confini del pudore da non varcare. Una volta, invece, mi era venuto di chiedergli a che età avesse cominciato a radersi. Una curiosità da ragazza.
«Con una certa continuità dai diciassette in poi. Verso il penultimo anno di liceo. Una vita, in pratica... E penso che lo dovrò fare ancora per un po’ di anni», lui dopo un attimo di riflessione, con un sorriso fra il misterioso e il malinconico (e l’auto-ironico).
«Ah, non per sempre...», meditabonda, «E come mai ‘sta cosa?».
Messo con le spalle al muto lui mi spiegò, con un filo di disagio, che col passare degli anni il livello di testosterone declina, nell’organismo maschile. Finché, un giorno, lui avrebbe potuto scansarsi la perdita di tempo di quel rituale quotidiano.
«Mi farò la barba un giorno sì e uno no, magari. Una scocciatura in meno».
Sebbene fossi al primo anno di Università, non avevo mai messo a fuoco la faccenda del testosterone in rapporto ai peli del viso. Più ancora, non avevo mai davvero preso coscienza, prima di quel giorno, che nelle vene di mio padre circolasse del testosterone. Il marker della virilità, onnipotente come solo un ormone sa essere. Sotto questo aspetto, avevo sempre considerato mio padre al di fuori e al di sopra della biologia. Lui, per me, non incarnava il maschio, ma rappresentava la figura dell’uomo. Ignoro perché, invece, quel giorno mi comportai in modo così fisico, con lui. Quel giorno mi venne istintivo lisciargli la gota, umida per la fresca rasatura. Il mio sguardo irresistibilmente compiaciuto: lui secerneva ancora tutta la chimica della mascolinità...
Solo ora mi rendo conto di come sarebbe potuta apparire equivoca, ad occhi estranei, quella nostra scenetta. Sembravo la giovane amante che fa scorrere una carezza lasciva sul volto del suo uomo, tale a dispetto della differenza di età. Per fortuna mio padre era un autentico virtuoso nello stemperare i momenti imbarazzanti. Mi arruffò i capelli, energico come se fossi un figlio maschio. Poi cominciò a prendermi in giro, con un cameratismo bonario, non so più su che cosa. In circostanze del genere, mio padre pescava da quel suo inesauribile repertorio di detti in napoletano (la sua lingua madre; la mia terza dopo italiano e inglese). Lui, notorio smemorato, era capace di sciorinare a memoria almeno sei, sette poesie dialettali, da Di Giacomo a Rocco Galdieri. ‘A livella, di Totò, era l’indiscussa preferita. Specie il distico in chiusura: «Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: Nuje simmo serie... appartenimmo à morte!». Delle parole tetre come una porta di bronzo che, però, nella sua interpretazione, si addolcivano in una stoica accettazione di certe verità ultime. Lui cercava di inculcarmele con una vena da maestro dolce.
«Sai cosa? Io mi permetto perfino di andare oltre l’autore», si riferiva al Principe De Curtis, ovvio, «Lui allude alla superiorità morale dei defunti perché, in fin dei conti, appartengono alla morte. Io sostengo che anche noi vivi apparteniamo alla morte e a lei veniamo restituiti. Sai come diceva mia madre? ‘A vita è n’affacciata ‘e fenesta. Sostanzialmente: una parentesi. Un prestito. Un viaggio che ci viene concesso. Poi sta anche a noi decidere che ne vogliamo fare, prima del Grande Ritorno».
Avrei, oggi come allora, qualcosa da obiettare. Nulla di granché importante, alla fine. Preferisco molto di più pensare che parecchie ore del suo viaggio lui le ha spese con la figlia, privandosi di paesaggi molto più eccitanti. Quante centinaia di ore ha passato al mio fianco per guardare assieme i cartoni animati... Con me significa: mettendosi al mio livello, osservando dall’altezza dei miei occhi. In altre parole spogliandosi della sua cultura, dei suoi esigenti filtri estetici. Lui amava Monteverdi, Couperin, l’Opera lirica. Non importa: senza battere ciglio lui si adattava a farsi vomitare nell’orecchio le vocette aliene, le musiche fracassone dei cartoon. Penso ai Teletubbies: dei pupazzi intelligenti come spore, simili a palle da tennis che emettevano gridolini disarticolati in un’atmosfera immobile, da primo giorno dell’Umanità. Se li rivedo per caso, a volte, sento che le onde alfa del mio cervello si rarefanno finché non sfumano completamente. La mia mente, nel giro di secondi, diventa vuota. Senza un pensiero.
I Teletubbies li guardavo con la testa affondata nel suo petto. Forse è un ricordo rubato a un sogno, eppure mi sembra di riascoltarlo il ritmo bradicardico che prendeva il suo cuore. Doveva essere l’effetto sedativo di quel cartoon che faceva a meno del tempo. E sempre a proposito di tempo: quanto ne ha trascorso a trasmettermi, ad insegnarmi, perfino con un certo successo, le cose che lui non sapeva fare... Il bagher a pallavolo; andare in bicicletta; tuffarmi dagli scogli. Lui mi consegnava il testimone, come una staffetta; io oltrepassavo i suoi limiti. Se non è gioco di squadra questo... Come allenatore non era di quelli burberi, anche se l’indolenza, il pressapochismo lo indisponevano. Quando sbagliavo mi correggeva e mi incoraggiava. Quando ero scoraggiata faceva di tutto per rimotivarmi. Venivo punita, generalmente quando lo meritavo, attraverso silenzio durante pranzi o cene che sembravano interminabili. Ogni tanto scrutavo, di sottecchi, le linee tese della sua bocca che si ostinava a non rivolgermi la parola. E poi la sua fronte girata– in modo così scoperto – verso gli altri commensali. Una tortura che, credo, tormentasse per primo lui. Finché una delle sue battute – e una risata di sollievo collettivo - dava il segnale che era terminata la mia quarantena, come la chiamava lui. Sempre in materia di castighi: non mi ha mai dato uno schiaffo. Il primo e unico ceffone me lo ha inferto morendo, prima di quanto sarebbe stato giusto. Papà.
❞ Come allenatore non era di quelli burberi, anche se l’indolenza, il pressapochismo lo indisponevano Quando sbagliavo mi correggeva e mi incoraggiava