Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
C’era una volta all’Ateneo il Museo provinciale
Mostra sulla storia del Museo Provinciale. Leonardi: gioco di ricostruzioni
Il museo non c’è più e il suo disarmo ne ha sbiadito anche la tipicità. Quel Museo Provinciale che nel 1875 fu allestito nel Palazzo Ateneo, per molti baresi era soprattutto il museo archeologico ma in realtà al suo interno si trovava una collezione enciclopedica che guardava al territorio e cercava, in una cornice postunitaria, di ridisegnare un profilo identitario della regione puntando sulla fulgida stagione medioevale e sulla vivace parentesi della pittura veneta quattrocentesca. Di questa storia, sconosciuta ai più, si occupa la mostra «Il Museo che non c’è. Arte, collezionismo, gusto antiquario nel Palazzo degli Studi di Bari (1875-1928)», allestita nel Salone degli Affreschi del Palazzo Ateneo fino al 24 aprile. Ce la racconta Andrea Leonardi, storico dell’arte, docente di museologia, che con Luisa Derosa ha curato l’iniziativa.
Professore partiamo dai contenuti. Cosa c’è in mostra?
«La mostra testimonia di quello che succede dentro, intorno e fuori al Museo. Si par
te dal contenitore nella sua componente decorativa e architettonica e si procede con le collezioni, in cui si testa la riscoperta del medioevo, contestuale ai grandi cantieri di restauro delle cattedrali pugliesi; si dà conto della presenza del Rinascimento veneto e dei quadri reperiti nel mercato antiquario. Scelti dal comitato scientifico che annoverava lo stesso Jatta, impegnato al contempo nella costruzione
del suo museo aRuvo. Ci sono testimonianze della quadreria, in parte confluita nell’attuale Pinacoteca, dove c’era una Lucrezia di Artemisa Gentileschi, poi finita in una collezione privata».
La mostra guarda anche all’esterno, e in che modo?
«Contemplando la presenza di viaggiatori illustri, come Paul Signac e Bernard Berenson. In Puglia scopre il San
Felice in cattedra di Lorenzo Lotto che presentiamo in mostra con i suoi diari in prestito dalla Harvard University».
Quali criteri espositivi avete seguito?
«Abbiamo giocato sulla ricostruzione storica, supportati dalla scoperta di 12 albumine (fotografie preparate con la chiara d’uovo) della Fototeca della Soprintendenza che, oltre ad essere presenti in mostra, restituiscono gli antichi allestimenti dei musei anche privati (tra cui Jatta) aperti al pubblico. Furono presentati, come sistema museale ante litteram, a Roma nella Mostra etnografica nazionale del 1911».
Quale valore aveva il museo nella cultura del tempo?
«Il museo provinciale era stato immaginato dal primo direttore dell’Istituto, l’archeologo tedesco Maximilian Mayer, e introduceva un’idea corale, un elemento di forte identità per Bari e sicuramente un modello culturale. Il museo risultava il prodotto della volontà della società del tempo, molto diverso da altre esperienze, con un’originalità doppiamente legata alla regione e al suo medioevo ritrovato, che non ha eguali in tutto il meridione».