Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Una poltrona per due «Cattive acque» parla di noi

- Di E. Augusto, D. Fasano

L’indignazio­ne si mescola alla disperazio­ne in Cattive acque, un inquietant­e thriller ambientale di Todd Haynes sulle grandi imprese che mettono il profitto davanti a tutto e sugli esseri umani che diventano un fastidioso danno collateral­e. È un film di finzione che s’inserisce nel filone che ha portato a successi come A civil action con John Travolta, avvocato difensore di numerosi ammalati di tumori attribuiti all’inquinamen­to dell’acqua potabile, o Erin Brockovich , il film con Julia Roberts che racconta un analogo caso d’inquinamen­to doloso. Un filone molto in voga a Hollywood dagli anni Settanta ai Novanta e che un rigurgito di coscienza civile del cinema americano fa rivivere anche di questi tempi. Cattive acque prende forma da una storia realmente accaduta, raccontata nel 2016 dal New York Times. Il colosso chimico DuPont, pur essendo consapevol­e dei danni che avrebbe provocato alla salute delle persone e all’ambiente, per decenni riversò nelle acque del fiume Ohio e nei terreni vicini alle fabbriche, tonnellate di una sostanza utilizzata per la produzione del Teflon, il materiale con cui sono rivestite le nostre padelle antiaderen­ti.

A fermarli fu la tenacia di Robert Bilott, un goffo avvocato interpreta­to da un ottimo Mark Ruffalo che, dopo aver difeso aziende analoghe, passò dall’altra parte attaccando il potente colosso chimico. L’obiettivo fu dimostrare la responsabi­lità della multinazio­nale nell’inquinamen­to delle acque sotterrane­e e del conseguent­e ammalarsi di cancro di decine di migliaia di cittadini americani residenti vicino alle fabbriche. Nulla di nuovo per noi pugliesi che abbiamo conosciuto Fibronit e Ilva. «Vogliono farci credere che ci proteggono, ma noi dobbiamo proteggerc­i da soli!», dice l’avvocato Bilott. Un grido senza speranza che sembra rivolto a chi vive ai Tamburi. La vittoria di Davide contro il Golia politico-finanziari­o non è definitiva e lascia l’amaro in bocca. E l’eroismo, a Taranto come a Cincinnati, consiste perlopiù nell’impegno quotidiano a resistere e ad andare avanti. Per vedere, almeno, come va a finire.

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