Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
La peste di Noja che ispirò Manzoni
Fu quella di Noicattaro, Noja all’epoca, nel 1815-16, e probabilmente fornì materiale utile a Manzoni per i suoi «Promessi sposi». Dentro quella storia lontana c’è anche un po’ del nostro dolore attuale
Più una suggestione che un’ipotesi. Ma le struggenti pagine de I promessi sposi di Alessandro Manzoni che raccontano la peste a Milano potrebbero essere state ispirate dall’ultima peste che l’Europa ha conosciuto. Quella di Noja - l’odierna Noicattaro tra 1815 e 1816. Il primo ad infatuarsi di questa tesi è stato Umberto Eco. L’ultima occasione di dibattito lo fornisce il saggio di Pietro Sisto e Sebastiano Valerio.
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Impossibile stabilirlo con certezza, anzi è molto più una suggestione che un’ipotesi. Ma è un po’ che filologi e letterati ci girano intorno, e inevitabilmente il dubbio è tornato d’attualità dal momento che I promessi sposi da grande classico si sono trasformati in tragica profezia.
Le struggenti pagine che raccontano della peste a Milano, potrebbero essere state ispirate dall’ultima peste che l’Europa ha conosciuto. Quella di Noja (l’odierna Noicattaro) tra 1815 e 1816. Come detto si tratta più di una infatuazione che di una concreta traccia storica, ma diversi saggisti e docenti di letteratura attraverso la ricostruzione dei fatti, la sovrapposizione di certe analogie e l’ausilio di alcuni testi hanno provato ad andare oltre le ipotesi. Primo tra tutti il grande Umberto Eco, che nella Storia dei Promessi Sposi si spinse forse più in là di tutti: «La retrodatazione dell’ambientazione del romanzo va oltre il coraggio dell’autore, oltre la cultura semantica e linguistica di chi evidentemente si sentiva più al sicuro nel maneggiare una trama non contemporanea a lui. Pare piuttosto evidente, a chi la vuol vedere, che questa scelta risponda a una necessità storica. E se leggiamo e rileggiamo il romanzo, l’unico obbligo a cui l’autore non voleva sottrarsi, era quello peste di Milano: il capolavoro fu raccontarla in quel modo senza averla vissuta».
Già perché Alessandro Manzoni non poteva averne alcun ricordo, visto che la peste divorò quasi interamente Milano dal 1629 al 1630 e che, come noto, egli nacque solo un secolo e mezzo più tardi (7 marzo 1785). Di quella no, non poteva averne alcun ricordo. Ma della peste di Noja sì, visto che si abbattè sull’allora villaggio barese tra 1815 e 1816. E siccome la prima stesura di Renzo e Lucia cominciò nella primavera del 1821, la disputa sulla acquisizione delle fonti, sugli studi anatomici dei cadaveri e sulle conseguenze causate alla popolazione non ha mai trovato una tregua soddisfacente per tutti. In molti sono rimasti col dubbio, col dubbio che Manzoni si fosse fatto spedire da Enrico Acerbi pubblicazioni e saggi medici sulla peste di Noja.
L’ultima occasione di dibattito la fornisce il saggio di Pietro Sisto e Sebastiano Valerio (L’ultima peste: Noja 1815-16, Progedit, Bari 2020), che racconta cosa successe durante quell’epidemia e perché è così importante ricordarlo. «La peste di Noja del 1815-16 suscitò grande clamore e timore in tutnità ta Italia e in Europa. Si contano almeno sette pubblicazioni che, tra 1816 e 1818, raccontano di quei fatti. Qualche anno dopo, Alessandro Manzoni avrebbe scritto della peste del 1630», spiega Sebastiano Valerio, ordinario di Letteratura italiana.
L’origine della peste di Noicattaro fu attribuita a un giardiniere, Liborio Didonna. Esperto commerciante, di ritorno da uno dei suoi viaggi nei Balcani, pare abbia avvertito un forte malore, i cui sintomi furono immediatamente trasmessi al resto della famiglia. Resosi conto che poteva trattarsi di un’epidemia, re Ferdinando IV di Borbone per evitare che si diffondesse in tutto il suo Stato isolò Noja scavando un solco al di là dei suoi confini. Alla fine del contagio si contarono quasi 800 morti su una popolazione di cinquemila abitanti, con particolare accanimento – della storia ma anche dei suoi concittadini – contro Liborio, destinato alle cronache dell’eterdella come l’«untore». E questa sarebbe un’altra similitudine con la peste manzoniana, ovvero la necessità letteraria e storica di individuare i suoi «untori» per offrirli al tribunale dei Lettori (esito straordinario che Manzoni conseguì scrivendo
Storia della colonna infame, individuando in Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Morra le origini della pestilenza che inginocchiò Milano).
«Non è possibile dire con certezza che Manzoni abbia letto e utilizzato le pubblicazioni sulla peste di Noja, anche se alla base della rappresentazione della peste manzoniana ci sono i numerosi trattati di area milanese e lombarda che Manzoni stesso cita – aggiunge Valerio –. Però c’è un episodio che ha attirato la mia attenzione: una lunga e dettagliata recensione del volume di Vitangelo Morea,
Storia della peste di Noja del 1817, che apparve a firma di Enrico Acerbi sul fascicolo IX della Biblioteca Italiana del settembre 1818, che era una dei periodici più importanti in quegli anni. Ora l’Acerbi fu medico e legato al Manzoni, cioè citato esplicitamente da Manzoni per i suoi studi sulle epidemie. Non è così improbabile dunque che Manzoni possa aver tratto qualche spunto, anzitutto di tipo clinico nella descrizione dei sintomi e del decorso della malattia, dalle pagine di Acerbi dedicate alla peste di Noja, come qualche sondaggio condotto sul testo lascia per altro supporre».
Com’è andata realmente non lo sapremo mai, ma a tutti quelli che – come chi scrive – hanno sempre sofferto le infinite iniezioni manzoniane di poesia e fatalismo, sottopongo il consiglio con cui Eco l’ha riabilitato molto prima che lo facesse un virus. «Non so se oggi a scuola lo fanno ancora leggere; se avrete la fortuna di non doverlo studiare, quando sarete grandi provate a leggerlo per conto vostro. Ne vale la pena». Dentro quella storia, ci potrebbe essere anche un po’ della nostra storia, un po’ del nostro dolore.