Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
«L’Italia vive il dramma di Taranto»
L’attore e regista pugliese Sergio Rubini parla di quanto sta accadendo nel mondo e traccia un parallelo con la città dell’acciaio colpita dall’inquinamento
«Credo che l’Italia oggi possa mettersi nei panni di Taranto, che possa comprendere cosa significhi dover scegliere tra salute e lavoro, tra chiudere oppure continuare a produrre». È quanto spiega in un’intervista al Corriere l’attore e regista pugliese Sergio Rubini. Il quale ritiene la situazione di Taranto «ancora più drammatica» perché in una condizione di isolamento».
Taranto vive una situazione ancora più drammatica perché si trova a combattere la sua battaglia per la salute in totale isolamento rispetto a un Paese che oggi non si sente solo di fronte a un’emergenza in cui è coinvolto l’intero pianeta
Non possiamo più permetterci di tagliare su sanità e ricerca, e quindi su scuola e cultura, i capisaldi di un sistema sano. Quanto sta accadendo cambierà totalmente il nostro modo di pensare
«Edopo il Coronavirus, dovremo tornare a occuparci seriamente dell’Ilva, che è un altro Covid-19, forse anche 20 o 21, ma tutto tarantino». Sembra solo una didascalia forte, provocatoria. Invece è molto di più: un «j’accuse» senza mezzi termini. Il post su Facebook dell’altro giorno è del regista Sergio Rubini. E le parole fanno da commento a un’immagine tratta dal suo film “Il grande spirito”, il western urbano con protagonisti lo stesso Rubini e l’indiano metropolitano Rocco Papaleo, girato sui tetti di Taranto e presentato giusto un anno fa al Bif&st di Bari. La foto del post è un fermo immagine della zona industriale di Taranto, scenario con ciminiere dell’ex Ilva sparse dentro un cielo minaccioso. Un affresco in linea con l’angosciante situazione di queste settimane, scorcio da un territorio che di emergenza sanitaria se ne intende. Perché la vive da anni con l’acciaieria, una presenza immanente nel film-denuncia di Rubini. «La situazione di Taranto - dice il noto regista pugliese - è il frutto di decenni di disattenzione, la stessa che ha portato a questa spaventosa epidemia. È la logica del cinismo, del profitto a tutti i costi».
Non le sembra un po’ avventato paragonare le due cose?
«Credo che l’Italia oggi possa mettersi nei panni di Taranto, che possa comprendere cosa significhi dover scegliere tra salute e lavoro, tra chiudere oppure continuare a produrre. Anzi, le dirò di più. Taranto vive una situazione ancora più drammatica, perché si trova a combattere la sua battaglia per la salute in totale isolamento rispetto ad un Paese che oggi non si sente solo di fronte ad un’emergenza nella quale è coinvolto l’intero pianeta».
Uno è un nemico subdolo, l’altro visibile.
«Ma è subdolo anche il male di Taranto. Tra l’altro, quando ho girato in città, ho scoperto durante le riprese notturne che l’Ilva va a pieno regime proprio durante la notte, in modo tale che la città si accorga meno della sua presenza. Mi rattrista vedere una comunità vittima di un virus tutto suo. Taranto deve reagire. E deve farlo partendo dalla sua memoria».
Lo ritiene un problema culturale?
«Esattamente. Per motivi generazionali, mi sono formato negli anni Settanta, quando lo Stato rappresentava, nel bene e nel male, un punto di riferimento. Nel corso degli anni ha iniziato a farsi largo la demagogia. Oggi abbiamo alcuni tra gli uomini più potenti del mondo che parlano come se fossero al bar. Si è persa la visione. Ecco, Taranto ha bisogno di una visione. E le visioni sono possibili solo se supportate dalla cultura».
Da dove partire?
«Dal recupero del centro storico. Ma non solo da un punto di vista architettonico. Come si può pensare di guarire una città se il suo cuore è malato? Ho girato il mio film per sette settimane, avrei voluto fare delle riprese anche nella città vecchia. Mi è stato sconsigliato. Mi hanno detto “troppo pericoloso”. Ho pensato a com’era Bari vecchia trent’anni fa. So di dire una cosa forte, ma i tarantini stanno vivendo una loro Shoah, perché si portano dietro una ferita profonda come se questa non fosse stata inferta loro, come se la portassero dietro da sempre. Sembra quasi che la città non voglia confrontarsi con il problema. Penso dovrà risolverlo qualcun altro. I tarantini mi sembrano sfiancati, oltre che delusi. Lo sa che la città dove il mio film è stato visto meno è proprio Taranto?».
Parla di una città totalmente rassegnata.
«Non a caso è l’unica città dove le sardine hanno fatto flop. Quando ho avuto occasione di parlare con qualche rappresentante delle istituzioni, mi sono sentito rispondere, “però abbiamo i cavallucci marini”. Si vuole far finta che il problema Ilva non esiste. È come se ad un ammalato di tumore dicessi che non si può sempre parlare della sua malattia. A che serve l’ottimismo se utilizzato solo per rimuovere? Preferisco il pessimismo dell’intelligenza di Gramsci».
Lo stesso pessimismo del Grande spirito.
«Ho descritto volutamente una città alla quale credo fermamente sia stata tolta la dignità. La storia dell’Ilva è una storia di disumanità. E lo stesso pessimismo, che poi è l’ottimismo del mio essere negativo, è lo stato d’animo con il quale mi pongo rispetto a quest’emergenza mondiale. Spero ci insegni che non possiamo più permetterci di tagliare su sanità e ricerca, e quindi su scuola e cultura, i capisaldi di un sistema sano. Quanto sta accadendo cambierà totalmente il nostro modo di pensare. L’impatto sarà talmente violento da rappresentare la fine di qualcosa e l’inizio di un nuovo corso, che non sappiamo dove ci porterà».
Sembra la sceneggiatura di un film con finale aperto.
«Al cinema preferisco i film col finale chiuso, perché hanno il coraggio di indicare una strada. L’autore deve rischiare, deve dare una direzione. Mi piacciono i registi capaci di prendere una posizione, come gli intellettuali di un tempo. Spero tornino di moda. Oggi parlano sono dopo aver visto i numeri: “Quel film ha incassato? Allora è il migliore. Quel libro ha venduto? bellissimo”».
Auspica un ritorno all’anticonformismo?
«La pancia del Paese ha necessità contingenti. Ma gli intellettuali devono metterci in guardia. Questo vorrei: un Paese con più competenze e meno propaganda».