Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Tucidide, Manzoni e il dopo inesistente
Pure i classici che parlano delle epidemie del passato sono schiacciati sulla tragedia incombente, non immaginano neanche un futuro. Invece questo è il momento di farlo, cominciando dalla città
Ho ripreso in mano alcuni dei grandi classici letterari dedicati alle epidemie. Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Defoe, Camus, Mann, solo per fare alcuni nomi, trascurando le numerose opere del periodo vittoriano. Ciò che mi ha colpito è che nessuna affronta il problema del dopo. Probabilmente perché l’epidemia e la paura inchiodano nel presente. Invece questo è il momento di iniziare a farlo, cominciando in prima battuta dalle città.
Con un appello di Alessio Viola abbiamo chiamato a raccolta fotografi, scrittori, intellettuali, creativi. Capiamo insieme come sta cambiando la nostra vita al tempo del coronavirus: la comunità degli scrittori e artisti si può riunire sulle nostre pagine e offrire ai lettori riflessioni che aiutino a passare la nottata. Oggi vi proponiamo un lungo testo Giandomenico Amendola, firma ben nota ai lettori del Corriere. Chi vuole, può inviarci il suo contributo (redaz.ba@corrieredelmezzogiorno.it).
Incuriosito ed approfittando del tempo libero prodotto dalla reclusione forzata ho ripreso in mano alcuni dei grandi classici letterari dedicati alle epidemie. Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Defoe, Camus, Mann solo per fare alcuni nomi, trascurando le numerose opere dedicate al colera ed alle epidemie del periodo vittoriano. Ciò che mi ha colpito in queste opere è che nessuna affronta il problema del dopo. Probabilmente perché l’epidemia e la paura inchiodano nel presente e non si riesce ad immaginare con lucidità un dopo. Eppure, alcune di queste epidemie come, per esempio, la peste – la morte nera – che decimò la popolazione europea nel ’300 ebbe come dopo il Rinascimento, reso anche possibile dall’alleggerimento demografico e dalla ripresa delle città. Del dopo si occuperanno gli scrittori di fantascienza, da Orwell ad Huxley ed Asimov, che ci regaleranno del futuro immagini utopiche o più spesso distopiche.
Anche oggi, del resto, le uniche riflessioni sul dopo riguardano le cifre del Pil o quelle sulla disoccupazione. Pochi si interrogano su cosa questa esperienza possa significare per il nostro mondo che, persa la fiducia nell’idea
di progresso, sta facendo rotta verso l’ignoto.
Durante le epidemie, narrano sia i grandi romanzi che le cronache, il campo di esperienza era il presente e solo quello. Tucidide e Defoe, il primo per Atene il secondo per Londra, raccontano come la scomparsa del futuro avesse fatto cadere anche le leggi e le norme di comportamento consuete. La popolazione terrorizzata distruggeva, rubava, uccideva e violentava incurante di possibili ed improbabili conseguenze. Oppure, era la fame a far da padrona e la folla assaltava i forni milanesi. O, spesso, la gente pregava non potendo far conto sulla scienza medica ancora legata fino alla metà dell’800 a teorie fantasiose come quella miasmatica secondo la quale le malattie si trasmettevano per via aerea. Gli antenati delle attuali mascherine sono i becchi che i monatti manzoniani riempivano di batuffoli impregnati di aceto per respingere il contagio. Ci volle un medico, John Snow, che in occasione del colera che colpì Londra nel 1854 dopo aver portato su una mappa i casi di
contagio si rese conto che erano tutti prossimi ad una fontana di Soho. Bastò eliminare la barra della fontana per fermare l’epidemia.
Il nemico epidemia sembra comunque in queste cronache imbattibile. L’immagine della morte che procede con la falce nasce nel medioevo ad indicare la sua imparzialità: ricchi o poveri, nobili o plebei. La falce non consente selezioni. A decidere il da farsi non c’erano comitati tecnico scientifici, le norme di contenimento le impartivano il re o il vescovo. Le uniche strategie che sembravano possibili erano il distanziamento e la preghiera, talvolta spazialmente accomunati. Il lazzaretto, nato per ospitare i pellegrini potenziali portatori di malattie, si presenta come una efficace risposta alle epidemie in quanto forma di «distanziamento sociale» di massa. A Firenze, che nel ’600 è anch’essa investita come tutte le città europee dalla peste nera della guerra dei trent’anni, la celebre abbazia di San Miniato al Monte viene trasformata in lazzaretto che accoglie 8000 malati.
Soprattutto, si prega. Il bisogno di protezione è tale che le preghiere non vengono indirizzate genericamente al cielo ma vengono rivolte a santi considerati specializzati con ben precisi compiti: San Rocco, San Sebastiano e San Carlo Borromeo. San Rocco che gira per i boschi con il suo cagnolino per curare i malati, benché sia infermo egli stesso, è il santo terapeuta. A lui si chiede la cura. San Sebastiano, invece, è il santo apotropaico a cui i fedeli chiedono di essere protetti dal contagio. È il corpo del santo che ricevendo le frecce della malattia fa da schermo ai fedeli. Da San Carlo Borromeo ci si attende misericordia ed un aiuto anche materiale che aiuti a superare gli anni dell’epidemia.
Oggi, il nostro rapporto con la città è ridotto al minimo: mercato, farmacia, edicola dei giornali. Chi può ancora andare al lavoro usa la macchina e, in assenza di traffico giunge in ufficio o in fabbrica velocemente. La città, diventata solo un percorso, non la vive più. C’è quindi da chiedersi che città troveremo quando tra qualche mese potremo nuovamente uscire e ritornare ad una quotidianità probabilmente mutilata.
Eppure, proprio nel momento in cui la reclusione forzata ci ha privato della città cominciamo ad immaginarla e a pensare cosa troveremo quando potremo tornare in strada. Probabilmente ognuno immaginerà una città propria e diversa costruita sulle memorie e sull’esperienza. Ognuno ritroverà non la città fisica e delle immagini – che probabilmente non cambierà - ma la città filtrata dal proprio immaginario. La propria città.
La città fisica rappresentata nelle immagini come «la città» tout court è fondamentalmente un artificio costruito sulla diffusa convinzione della assoluta oggettività della città e del carattere residuale della soggettività con cui questa è vissuta. Una città vive, invece, grazie ad immagini ed immaginario. Immagini ed immaginario sono necessari ai cittadini per vivere la propria città. L’identità che segna ogni città è, infatti, in gran parte fatta di immagini più o meno condivise.
Riflettendo ed immaginando sulla nostra città del dopo, sarà inevitabile pensare alla città che vorremmo e che talvolta abbiamo anche cercato. Scopriremo, probabilmente, la forza dell’immaginazione nel plasmare il futuro sia nostro che, soprattutto, collettivo.
Nel Rinascimento, che può essere considerato il dopo della grande peste del trecento che decimò la popolazione europea, per la prima volta la città venne pensata prima di essere inerzialmente e casualmente costruita come avveniva nel medioevo. È allora che nasce la città ideale, rappresentata nelle grandi tele di Urbino e Baltimore. La città che possiamo immaginare non sarà la città ideale ma una città capace di rispondere ai nostri bisogni e desideri più di quanto lo sia quella attuale.