Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Le premonizioni trovate fra gli scaffali
Stando in casa e rileggendo Manzoni e Leopardi possiamo capire meglio quanto ci sta accadendo
Non ho mai capito se le premonizioni esistano, fatto sta che qualche settimana prima di questo buio periodo rileggevo La storia della colonna infame di Manzoni e mi chiedevo cosa sarebbe se un’improvvisa epidemia ci avesse colpito oggi. Quel tempo è venuto. Per anni abbiamo distrutto sul nostro cammino qualunque cosa ci apparisse non degna di noi, fottendocene della natura schiavizzata e demonizzando gli altri.
Con un appello di Alessio Viola abbiamo chiamato a raccolta scrittori e intellettuali: lo scopo è capire come sta cambiando la nostra vita al tempo del corona-virus, offrendo ai lettori riflessioni che aiutino a passare la nottata. Oggi vi proponiamo un testo di Davide Ceddìa, dottore di ricerca in Italianistica. Chi vuole, può mandare il suo contributo (un testo non più lungo di 5500/6000 battute, spazi inclusi, corredato da foto e minibiografia dell’autore) all’e-mail redaz.ba@corrieredelmezzogiorno.it.
C’era una volta un re, diranno i miei lettori; c’era una volta un pezzo di legno, diranno altri. In realtà questa volta non c’è né un re né un pezzo di legno (che diventa un bambino). O meglio, un re c’è e ha pure una corona. Il punto è che la sua nobiltà ci sta schiacciando, ci sta costringendo a una vita che non ci appartiene. Sia chiaro, il trauma del «restare a casa» è visto male perché forse ci siamo anche disabituati al fascino delle pareti casalinghe, al piacere di gustarle in solitudine, noi e loro, noi e la nostra casa, in qualche modo specchio stesso della nostra personalità. Quei piaceri del tatto che si esplicano nell’accarezzare i dorsi dei libri della nostra biblioteca, forse in questi giorni potremmo riapprezzare l’odore della vecchia carta ingiallita, ormai quasi estraneo dopo l’avvento snaturante del digitale.
Spesso l’uscire di casa è derivante da noia, ma noia di cosa? Io tendo ad annoiarmi più fuori, cosa triste probabilmente ma veritiera. Non con tutti si può parlare delle proprie passioni, dei propri amori. A casa si può parlare con le parole dei libri, ritrovarsi, ricordarsi di quando un tempo, tanto tempo fa, ci siamo sorpresi nel piangere davanti a una pagina, a una frase, a un costrutto che speravamo fosse nostro e che abbiamo sognato di ripetere con la stessa coscienza, con lo stesso desiderio di comunicare. Utilizziamolo bene questo tempo casalingo, non cadiamo nell’errore e nella smania di cedere al fascino dell’esterno, soprattutto ora, ora che l’esterno ci fa del male e potrebbe farne a persone a cui teniamo.
Non ho mai capito se le premonizioni esistano, fatto sta che qualche settimana prima di questo buio periodo rileggevo La storia della colonna infame di Manzoni; per fortuna non siamo in odor di untori, fasulli peraltro, come lo erano quelli della storia manzoniana; non siamo in tempo di torture (al solo fine di far pronunciare una verità che tale non era ma solo frutto delle tribolazioni estreme della carne); non siamo nemmeno nel tempo delle colonne infami, anche se la diffamazione esiste e il complottismo regna sovrano, persino laddove non ha senso che ci sia.
Mentre rileggevo quelle pagine, con il senno del poi profeticamente inquietanti, mi chiedevo cosa sarebbe successo se un’improvvisa epidemia ci avesse colpito oggi, nell’età della globalizzazione spietata, nel tempo della rete (che spesso ci accalappia negativamente nel suo ambiguo «darci» un vero e un falso), nei giorni tristi della mancanza di memoria storica. Eccoci qua. Quel tempo è venuto. Un’ondata di apocalittica ed emotivamente satura aria di sciagura sta decidendo la nostra vita attuale, le nostre giornate a casa, i nostri ghirigori mentali adattati al contesto.
Questi giorni sono anche quelli in cui, in solitudine o con le nostre famiglie, ci stiamo chiedendo se forse il genere umano una cosa simile non se la meritasse. Per anni abbiamo distrutto sul nostro cammino qualunque cosa ci apparisse non degna di noi e dunque incomprensibile, abbiamo schiavizzato la natura fottendocene di quella meravigliosa operetta morale di uno dei più grandi realisti moderni (altro che pessimista!), quell’uomo dal cognome di felino che tanto aveva capito quando noi non eravamo nemmeno un sogno del sogno nell’esistenza.
Abbiamo demonizzato gli altri, o meglio l’«altro», perché il «noi» è sempre un malato circolo vizioso che ci dà la presunzione di credere che il bene sia qui, tra i nostri amici, nel nostro mondo, e che il fuori sia il male, l’evitabile, il contestabile. Al punto tale da far inghiottire al mare (spirito nobile e innocente, anch’esso stuprato) poveri innocenti «colpevoli» di sfuggire da una guerra, da una carestia, dalle malattie. Come quando, anni fa, chiesi a un ragazzo marocchino «perché scappano?» e lui andò a un lavandino, lo aprì e mentre l’acqua scorreva mi disse «per questa; la vedi quest’acqua? Molti non ce l’hanno». Una cosa così naturale per noi, che tutto abbiamo, così rara per altri. Acqua. La stessa che poi inghiotte per sempre questi uomini, queste donne con bambini.
Il virus è dicotomico nella sua assurdità, è forse il più democratico degli eventi, non fa distinzione tra ricchi e poveri, tra belli e brutti, bruni e biondi, bianchi, neri, gialli. Questo da un lato. Dall’altro è l’annullamento alla radice di qualunque forma di democrazia stessa, perché noi ora stiamo subendo. E ci manca quella responsabilità per volere bene agli altri, perché ne vogliamo troppo poco a noi stessi, una responsabilità che ci faccia dire che stare a casa è purtroppo l’unica soluzione possibile, al momento.
Nell’intimo, ognuno, se ama la vita, spera di non essere il prossimo a essere infettato, perché le cose brutte colpiscono sempre gli altri, certo come no, mentre noi crediamo di avere l’armatura di qualche supereroe che neutralizzi ogni specie di male. Amiate le vostre case in questi giorni, riscoprite vecchie parole premonitrici, sposatele al presente, riflettete affinché la vita ci riappartenga. Migliore di prima. Con i suoi trionfi.