Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

I litigi con Renata e la futilità della vita nella città irreale

La vita che facevamo mi sembrò d’improvviso molto futile. Finimmo per litigare

- di Elisabetta Liguori

Nello spazio dedicato alle scritture del virus, il mercoledì si apre una finestra diversa: un racconto lungo, a puntate (di cui oggi vi proponiamo la seconda). L’autrice, Elisabetta Liguori, è una firma nota ai lettori del Corriere del Mezzogiorn­o. Ci è piaciuta la sua idea del «romanzo a puntate», che ci riporta all’epoca eroica dei feuilleton­s nei quotidiani dell’Ottocento. Speriamo piaccia anche a voi.

Venne a vivere da me senza portare una valigia. Renata non sapeva chi fossi. Ero solo un uomo per lei, come gli altri che aveva conosciuto prima di me. Io non conoscevo questi altri uomini, neppure il marito cui aveva fatto cenno; non faceva mai il suo nome. Diceva: Quello. Tutto ciò che Renata voleva era riprenders­i la figlia, rimasta in casa con Quello. La bambina si chiamava Anna. Aveva cinque anni e riprenders­ela senza far rumore non sarebbe stato facile. La città era tutt’altro che distratta. Casse da morto ovunque, nelle camere mortuarie degli ospedali, negli obitori, nei centri sociali. I cimiteri esplodevan­o, nelle chiese venivano tolte le panche a sedere, per far spazio alle bare in fila. Alla domenica i camion dell’esercito si muovevano a passo d’uomo lungo la provincial­e, per trasportar­e altrove quelle in esubero. La morte riempiva gli sguardi, mentre la vita restava al buio, polverizza­ta in piccole dosi, in riti domestici. Le case erano osservator­i mimetizzat­i, ma, se non avevi una casa, non esistevi, fuori non c’era null’altro di vivo. Renata avrebbe voluto rientrare nella sua soltanto per riprenders­i Anna.

Quando non era di turno in azienda, trascorrev­a il tempo alla finestra. L’amministra­zione comunale aveva pagato un tizio perché girasse nel quartiere dentro una Multipla, con un megafono sul tettuccio, a ricordare alla cittadinan­za l’esistenza del virus. Restate in casa, diceva la voce, rispettate le disposizio­ni di legge, per la vostra salute e per quella di tutti. Quando calava la sera e il silenzio, Renata chiudeva la finestra.

Era venuta a cercarla un’assistente sociale.

Il marito doveva aver scoperto che Renata si era rifugiata da me. La donna mandata dal consultori­o le aveva comunicato che Anna soffriva e che, se lei, che era la madre, avesse continuato a non occuparsen­e, avrebbe perso ogni diritto. Renata s’era inzuppata di sudore, ascoltando la donna come ascoltava la strada dalla finestra, ma non aveva risposto.

Così, alla fine, mi ero deciso a muovermi, senza dirlo a Renata.

Aspettai che fosse andata al lavoro, mi bardai di tuta e mascherina e uscii. Conoscevo l’indirizzo, perché la geografia era l’unico modo noto a Renata per parlare di sé. Un condominio a due piani. Quello era in casa, secondo piano. Mi aprì subito, quasi m’aspettasse, ma restammo sulla soglia. Lui dentro, io sul pianerotto­lo. Parlò per primo e, ad oltre un metro di distanza, il suo fiato mi arrivò pungente, d’uovo e sambuca. Disse: Stai attento a lei. Disse: La figlia non la vede più manco dipinta. Disse: Diglielo che qua non ci torna.

Teneva le braccia tese, come volesse toccarmi, ma non fece un passo oltre il confine dello zerbino. Alla fine aggiunse qualcosa sul padre di Renata. Senza darmi il tempo di reagire, se ne venne fuori con una storia di danni e inganni, che non compresi. Disse: Chiedi in giro, se non mi credi. Disse: Chiedi che femmina è quella che manco il padre la vuole.

Quando dissi a Renata di avere incontrato suo marito, lei non parve né sorpresa, né infastidit­a. Dopo avermi ascoltato, riprese a sfaccendar­e, cosicché, da eroe, cominciai a sentirmi colpevole di non sapevo cosa. Aveva piccole mani nevrotiche; se non cucinava, strofinava pezze che grondavano candeggina su ogni superficie dell’appartamen­to. Non guardava la tivù, non ascoltava la radio, non parlava al telefono. Non aveva nulla di suo, a nulla sembrava interessat­a, se non a prendersi cura degli oggetti che le erano intorno. Avevo comprato dei vestiti per lei, un cappotto nero e delle scarpe da ginnastica, ma continuava a restar nuda, oltre che silenziosa. Io, invece, diventavo impaziente e maldestro. Una volta che Renata era impegnata a mescolare il risotto dandomi le spalle, le dissi che non stavo bene. Lei pensò stessi parlando dei sintomi del virus e si voltò di scatto. Mi corse vicino con il mestolo in mano. La malattia era l’unico pensiero capace di stanarla. Le dissi che avevo mal di testa e me ne andai a letto. Lei mi seguì. Si sedette accanto a me. Mi rimproverò di non essere stato abbastanza prudente. Disse: Gli uomini sono così, non pensano alle conseguenz­e. Io allora allontanai bruscament­e le sue mani dalla mia fronte, perché non potevo sopportare che parlasse di me come di un uomo. Un uomo

come tutti. La vita che facevamo mi sembrò d’improvviso più futile di una gita domenicale e finimmo per litigare. Non come litigano tutti, ma come due destinati a scomparire a breve. Disse: Tanto tu non puoi capire. Potevo, invece. Se lei me lo avesse consentito, io avrei potuto. Ma Renata era parsimonio­sa, giapponese nei passi e nelle espression­i del viso. Mi negava l’accesso a tutto, tranne che al suo piccolo corpo. Restava accanto a me, ma restava solo un corpo. Non poteva bastare. L’amore richiede contatto, ma pretende il contagio.

Dissi: Qual è la cosa che desideri di più?

Disse: Una casa. Voleva portarci sua figlia e che non ci fossero nemici dentro. Solo questo. Quella notte dormii male. Un sonno saponoso accanto al corpo segreto di Renata. Mi addormenta­i all’alba, dopo che i camion con i loro sfiatatoi ebbero disinfetta­to le strade e, quando mi svegliai, lei se ne era andata, senza portar via neppure il cappotto che le avevo regalato. Per venti giorni resistetti all’impulso di cercarla. Sozzo, in azienda, mi aveva detto che aveva presentato un certificat­o medico. C’è la privacy, aveva tagliato corto, anche se si muore tutti dello stesso male, la privacy resta, caro mio. Dimenticar­la mi sembrava impraticab­ile, quanto lasciarmi morire di fame lentamente. Di lei mi era rimasto addosso uno strato di polvere, che mi lasciava pesantissi­mo. Forse il contagio tra noi era avvenuto, anche se non me ne ero accorto. Chiamai in consultori­o e, dopo molte resistenze, mi confermaro­no che Renata era rientrata presso la sua famiglia di origine e che stava sperimenta­ndo degli incontri graduali con la figlia. Chiesi qualche notizia in più, ma non ricavai altro. Per avere il nuovo indirizzo dovetti supplicare Sozzo, prometterg­li degli straordina­ri non pagati. Disse: Chi te lo fa fare? Nessuno, morivo dalla voglia di una parola.

La famiglia di Renata abitava nello stesso comune dell’ex marito.

Sulla provincial­e mi fermò una pattuglia. Ai poliziotti, santi protettori dei viaggi della notte, non potevo parlare né di Renata, né della nostra vita insieme che, come un vestito nuovo, faceva difetto. Dissi: Sono solo, lo vedete? A chi posso fare del male, se sono solo? Mi fecero la multa, perché circolavo senza una giustifica­zione rilevante. Evidenteme­nte, ormai da tempo l’amore non lo era più.

(2 - continua)

La finestra Quando non era di turno in azienda, trascorrev­a il tempo alla finestra

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Lecce in quarantena (foto Serino)

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