Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
San Nicola prigioniero di una festa senza luci
Viaggio nei luoghi dove si svolge tradizionalmente la festa per il patrono che doveva iniziare oggi con il corteo storico. Ma il coronavirus ha fermato tutto
In una città senza luminarie, da oggi fino a sabato si festeggia il patrono San Nicola. Desta impressione vedere la statua del santo chiusa in Basilica, con pochi anziani che pregano in mascherina ( foto Sasanelli).
BARI Per gli scherzi della sorte, che rendono più amara la vita, la festa dei baresi, la sagra di San Nicola cade in piena emergenza, questa sorta di maledizione medievale che sta cambiando le nostre giornate e i nostri sogni. E l’emblema di Bari è proprio il suo Santo Patrono. Un connubio che viene da lontano. Lo ricorda Antonio Beatillo nella sua «Historia di Bari», pubblicata da Cacucci editore. Il vescovo di Mira, che doveva recarsi a Roma nel 325 per il Concilio passò per Bari. «Narrano di lui – scrive Beatillo che nel porre nella città di Bari i piedi al lito (lido, ndr), disse con vero spirito di profetia, in latino, come si ragionava allora in Italia: Hic quiescent ossa mea (qui riposeranno le mie ossa)».
Vero, verosimile, una storia «addomesticata»? È quasi irrilevante. La realtà è che Bari ha costruito un tratto fondamentale della sua vita attorno al Santo. Al quale si stringe, metaforicamente in queste ore, in una «città sospesa», con il suo simbolo religioso relegato nella sua chiesa, solo, clandestino, senza la sua gente, il suo popolo. Solo con la presenza di qualche tecnico tv, ammesso in Basilica per predisporre la diretta televisiva. L’incrocio tra sacro e profano. Oggi, è il tradizionale giorno del corteo storico, della Caravella. Non si farà. Una manifestazione che nel corso degli anni ha subito non poche trasformazioni artistiche, per coniugare tradizione e innovazione, ma che ha sempre conservato il suo fascino. Centinaia di figuranti, di artisti pronti a far rivivere l’epopea del Santo venuto dal mare.
Santo-migrante che non a caso, è venerato da culture e religioni diverse. Ma il vero attore della manifestazione è sempre stato il suo popolo. Che si assiepa nelle vie centrali di Bari, in una ritualità che unisce religioni e tradizioni, in attesa del quadro del Santo. Questo popolo oggi non c’è, non ci può essere, perché un nemico più grande, la pandemia, ruba i valori fondamentali dell’esistenza: stare insieme, pregare, parlarsi, abbracciarsi. La festa di San Nicola, senza i fedeli, è una ferita difficile da sopportare. La solitudine del Santo nella sua basilica, è la solitudine di ogni barese che in queste ore, dopo due mesi, riscopre il volto della sua città.
Che ama e odia allo stesso tempo. Spesso denigrata, colpita, ferita, oltre i suoi reali demeriti. La città «parla» attraverso la sua gente, ma anche con i suoi monumenti, le agorà moderne, i suoi simboli, i templi della cultura. Uomini e ambiente costituiscono lo stesso microcosmo vivente. Così la tristezza che ti avvinghia in questa festività che festa non è, non ti abbandona nemmeno inoltrandosi nelle vie di Bari Vecchia. Anche qui, qualcosa si è spezzato: il tradizione vocio di queste strade che «parlano», si è spento.
I bambini, i ragazzini, sembrano fantasmi. Non si vedono più, non inseguono più un pallone. Non capiscono il mondo in cui vivono. Ricordano i pesciolini del noto apologo, che sguazzano, si divertono in acqua, finché un pesce adulto pone la domanda fatale: «Com’è l’acqua?». I pesciolini scivolano via, poi si domandano sbigottiti: «Ma cos’è l’acqua?».
Come si fa a far comprendere ai nostri bambini, ai nostri ragazzi, abituati alla massima libertà, una regime di restrizione? Una comunità, quella della città vecchia, che, nonostante i semi velenosi della falsa modernità, conserva i barlumi di vecchi tratti identitari, e che in questo tunnel senza fine, tarda a ritrovare la voglia di tornare a vivere.
Le strade come budelli in cui scorre linfa vitale appaiono ancora silenti, afone. Più che il senso civico, nonostante la babele ordinanze, nazionali e regionali, è la paura che induce a restare al riparo. Un silenzio spettrale anche perché, di questi tempi, centinaia di turisti, via mare o via terrà, solitamente si riversava tra Cattedrale e San Nicola, rendendo sempre più vivo e multicolore il borgo antico.
La luce non brilla a Bari vecchia, ma anche nel quadrilatero centrale, il simbolo della città dei commerci e della cultura. Dappertutto la vita è sospesa. In via Sparano, il salotto della città, negozi in gran parte chiusi, come a Ferragosto; nei santuari del sapere, da Laterza a Feltrinelli a Cacucci, i «fedeli», i lettori forti, tardano ad affacciarsi. Università a mezzo servizio, scuole chiuse, come i teatri.
La cultura tramortita dal virus. Anche «Nder a la lanz», simbolo della più genuina baresità degli amanti del crudo appare sempre più malinconica. Sul lungomare, sfrecciano i runner risorti dalla latitanza, le panchine sono ancora «sigillate» perché è vietato sedersi, «Pane e Pomodoro» che a maggio è già metà di tanti «squagliasole», come i baresi definiscono chi corre subito ad abbronzarsi, appare come una landa semi-deserta.
Certo, poi ci sono i mercati. In cui gli affollamenti non mancano. Ma come dice un grande sociologo del secolo scorso, Ortega y Gasset, nella società di massa il vuoto non esiste: «Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini… i caffè pieni di consumatori». Perché, quindi, sorprendersi? Una citta ancora tramortita. Ma ogni tanto, le sirene di ambulanze, ci riportano con i piedi per terra. E ci ricordano che il nemico è tra noi.