Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Cosa ci insegna quel Teatro Vuoto
L’astrofisica ci insegna che uno spazio vuoto non equivale al nulla ma a una materia rada, talvolta oscura, di densità sfuggente, complessa, smisurata.
Mi trasferii a Bari un anno dopo il rogo del Petruzzelli e ricordo che, vedendone il devastante esito protrarsi immobile per anni, andai maturando l’idea che quel Palcoscenico Incendiato continuasse mirabilmente a fare il suo mestiere.
Rappresentare l’inverno di quella comunità che lo aveva animato. In periferia, intanto, una fabbrica dismessa trasformata in opificio per le arti, provava a rappresentare un’altra parte di quella comunità che – dicemmo allora – fra tradizione e tradimento, avrebbe dato vita a una nuova primavera.
Con lo stesso sguardo e forse la stessa speranza, mi pongo oggi di fronte a questo Palcoscenico Vuoto e al di là del prezioso rispetto reverenziale che gli riservano le istituzioni e della precarietà che i suoi lavoratori giustamente denunciano, credo varrebbe la pena soffermarsi su quanto sta rappresentando.
Il Teatro è un’arte antica, richiede mezzi linguistici elementari, accessibili persino agli animali. Il nostro vecchio gatto è morto e altri due adesso si avvicinano per segnalarci il desiderio di prendere il suo posto nel vitto. Si fermano davanti alla porta e quando li notiamo, compiono ripetutamente il tragitto che conduce alla ciotola, mettendo in scena il loro desiderio. Molti sostengono che questo virus stia rappresentando l’insopportabile squilibrio che la nostra specie comporta per la Terra. Interpretazione che spiegherebbe bene anche la maggiore vulnerabilità dei maschi di una certa età, fra i principali artefici dello scempio. Dunque, in questa prospettiva, un Teatro Vuoto, starebbe perfettamente confermando la sua essenza, offrendoci l’opportunità di assistere al dramma senza viverlo. A patto che dalla rappresentazione si sappia trarre insegnamento.
Apprezzando certamente le attenzioni di Stato, Regioni e Municipi, il Teatro ci dice che non è lui ad aver bisogno d’aiuto, ma la Comunità che rappresenta.
Ora, per quanto riguarda noi teatranti, piuttosto che promuovere surrogati o persino sussidi di disoccupazione, gioverebbe cogliere questo passaggio per investire in formazione e ristrutturazione. La prima comprende ricerca, sperimentazione, studio e anche quelle interessanti proposte che figure di spicco come Vacis e Baliani vanno proponendo. Formare un pubblico naturalmente; formare e aggiornare le competenze di chi nel Teatro lavora; favorire interazioni che potrebbero instaurarsi con altri linguaggi dell’arte, ma anche, ad esempio, con il mondo della Scuola, altrettanto in crisi. Di ristrutturazione poi avrebbero bisogno la maggior parte dei luoghi destinati al pubblico spettacolo, ma non per assecondare il distanziamento sociale, che è bene resti temporaneo, ma per rispondere alle esigenze di una scena che da più di cento anni fatica ad essere imbrigliata da vecchie architetture. Di ristrutturazione avrebbero bisogno i sistemi organizzativi, gli strumenti di finanziamento, le agenzie che curano promozione e distribuzione. E anche il lessico. Si pensi ai danni generati dall’introduzione nella sanità del sostantivo «azienda» e si riveda l’associazione «industria culturale», perché prevalga il valore del processo sul prodotto.
Ricordo la coperta a quadri che mia madre usava per stirare. Completava la metamorfosi del tavolo in cucina, ormai capanna per la messa in scena mia e delle mie due sorelle, di una famiglia povera alle prese con l’ultimo tozzo di pane da spartire. Trovavamo in quella rappresentazione la possibilità di sperimentare un mondo che c’incuriosiva e forse denunciare inconsciamente la prolungata assenza dei nostri genitori. Questa opportunità offre il Teatro all’umano: mettere in scena la vita, per affrontare la vita. Beckett, fra le ultime battute di Finale di partita ci ricorda: come il bambino solitario che si mette in diversi, in due, in tre, per essere insieme, e parlare insieme, nella notte.