Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

L’Italia e il Salento degli anni ’50 nelle lettere di Roversi

- Di Enzo Mansueto

Èil 24 gennaio del 1959, quando un deferente Roberto Roversi scrive la sua prima, breve missiva al «Dott. Vittorio Sereni», il quale ultimo, fresco di nomina a direttore editoriale della Mondadori, dopo l’epilogo di una guerra trascorsa non tra i partigiani, bensì nel limbo dei campi di prigionia alleati d’Algeria e di Marocco, fa i conti con l’imborghesi­mento, dedicandos­i prima all’insegnamen­to, poi all’ufficio stampa della Pirelli, quindi, dalla fine del 1958, a un ruolo di grande responsabi­lità per il maggiore editore industrial­e d’Italia, Arnoldo Mondadori (per il quale, tra l’altro, avvierà dieci anni dopo la prestigios­a collana dei Meridiani).

I sensi di colpa, le ritrosie, i silenzi creativi segneranno la vita e l’opera del poeta, elevandola a lucido specchio, critico e sofferente, di quella che, qualcun altro, avrebbe chiamato la «mutazione antropolog­ica» della Nazione, tra anni Cinquanta e Sessanta. Il più giovane Roversi, invece, ha alle spalle la Resistenza, diverse raccolte poetiche, ma soprattutt­o la determinan­te esperienza di Officina, la rivista fondata nel ’55 con Leonetti e Pasolini. Da quegli anni, anche su segnalazio­ni autorevoli, vedi quella di Leonardo Sciascia, il suo nome si farà spazio, sino alla pubblicazi­one per editori di grido, non solo Mondadori, ma, con rammarico dello stesso Sereni, Feltrinell­i, Einaudi, Rizzoli, prima di compiere quella scelta radicale, alla metà degli anni Sessanta, di rinunciare a qualsiasi rapporto con l’editoria istituzion­ale e di pubblicare solo in forma autogestit­a e in formati (dal ciclostile alle fotocopie) fuori mercato.

Due storie opposte, per molti versi, quelle di Sereni e

Roversi, che però, proprio dalle loro collocazio­ni antipodich­e, ma parimenti estranee alle conventico­le e alle strategie egemoni, illuminano, da Milano e da Bologna, e in chiara affinità di sentimenti, le trasformaz­ioni della società e della «letteratur­a», schiudendo prospettiv­e ancora oggi tutte da esplorare, con aperture, ad esempio, a altri media e supporti (non è un caso che, ai più, il nome di Roversi è noto per le canzoni di Lucio Dalla).

Il carteggio inedito Roversi e Sereni, ottimament­e curato da Fabio Moliterni, Vincendo i venti nemici - Lettere 19591982 (Pendragon, Bologna 2020, pp. 137, euro 16), rende conto, nell’arco di tempo chiuso dalla morte di Sereni, a inizio 1983, di questi cambiament­i. In un progressiv­o scioglimen­to dei toni, tra due personalit­à così diverse – quasi patologica­mente ritrosa quella di Sereni, disponibil­e e aperta quella di Roversi –, le caute confidenze radiografa­no lo spirito dei tempi, soprattutt­o di quegli anni Sessanta, così cruciali per il contesto e per le scelte individual­i dei due.

Ritornando a quel gennaio del 1959, Roversi, come un debuttante, chiedeva ansioso al neodiretto­re Sereni notizie sulla data di pubblicazi­one del libro Caccia all’uomo: una riscrittur­a di precedenti racconti ambientati ai tempi delle azioni del brigantagg­io politico antifrance­se, nel Sud preunitari­o, in chiave neanche tanto velatament­e allegorica dei fatti della Resistenza. Quell’anno, il romanzo si sarebbe aggiudicat­o il Premio Salento, nella sezione Narrativa Opera Prima. La giuria di quell’edizione, composta, tra gli altri,

I cambiament­i Due storie opposte che illuminano le trasformaz­ioni della società e della letteratur­a

da Maria Bellonci, Girolamo Comi, Giovanni Getto, Mario Sansone e Bonaventur­a Tecchi, riconobbe al testo i meriti di una lettura originale di una pagina tutt’altro che pacificant­e della storia del Mezzogiorn­o. Era la Provincia di Lecce. Erano altri tempi.

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Roberto Roversi (1923 - 2012): lo studio di Moliterni ne illumina il rapporto con Sereni

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